domenica 15 gennaio 2012

Visto Vacanza Lavoro Canada 2012 Aperto il bando

Il nuovo bando per richiedere un WHV in Canada è ufficialmente aperto.Qui ( WHV CANADA 2012 )trovate tutte le informazioni necessarie ed i moduli da inviare assieme a tutta la documentazione richiesta.
Affrettatevi, perchè  vale il principio " chi prima arriva......

domenica 1 gennaio 2012

Goodbye and welcome

Auguri a tutti voi che avete seguito i primi passi di questa esperienza Canadese. Qui è  passata la mezzanotte. I botti per strada sono pochissimi ma un lungo lamento viene dal porto dove le navi emettono il loro segnale prolungato per salutare il nuovo anno.

martedì 27 dicembre 2011

Behind


Bisogna tornare un po’ indietro e quale giorno migliore per farlo se non il 25 dicembre 2011 alle ore 18:00 di un pomeriggio immobile a Vancouver. La giornata è passata attendendo che passasse inchiodato con gli occhi alla finestra mentre la pioggia continuava ad allagare i parchi ed a confondere i gabbiani.
Behind. Indietro di un anno, ci aggiungo 9 ore e taglio di corsa La Alameda a Sevilla varcando le colonne d’Ercole senza neppure bagnarmi un mignolo. Il 25 dicembre ha la sua tipica aria di giornata casalinga, un po’ soporifera, introversa, familiare. L’abbuffata a pranzo concilia la lentezza, il sentirsi in diritto di attendere che la giornata passi, così. In fondo è Natale. 
Mi riprometto di smentire totalmente questa mia descrizione passando il prossimo Natale in spiaggia a Melbourne con il costume rosso.
Sono andato troppo dietro con la mente, Siviglia è lontana e qui a Vancouver dopo una breve parentesi selvaggia in downtown che ha fatto pensare a tutti i passanti che stessero girando un film ed ha fatto pensare ad un orso che se quello era un film, beh allora era proprio un film di merda, ho trovato casa e lavoro.
Sono riuscito a trovare una stanza a 15 minuti di skytrain dal centro. Una sistemazione tranquilla a poco prezzo e, cosa da non sottovalutare, con la presenza di una ragazza italiana che mi ha facilitato di molto l’impresa. Per quanto riguarda il lavoro è stato più complicato di quanto pensassi, ma non perché non ci siano occasioni, solo perché ho sicuramente peccato di superficialita’. Ebbene si, lo ammetto. Sono partito dall'Italia sulle ali dell’entusiamo, e va bene. Sono partito convinto che certi colpi di testa facciano bene allo spirito, e siamo d’accordo. Sono partito convinto che l’inglese l’avrei poi “praticato” sul luogo, che per un lavoro in una cucina italiana potesse bastare la lingua madre. Sbagliato. Nella mia visione avevo omesso tutta una serie di personaggi che mi si sono materializzati il primo giorno di stage.
Oh no, non stage in quel senso. A quel punto restavo in Italia. Lo stage qui è inteso come il giorno di prova. Il giorno, uno.
Una delle mie prime interview è andata malissimo.
Inizio molto tranquillamente a ripetere il mio resume inanellando competenze, abilita’, qualita’ professionali e descrivendo tutto con molta continuita’,vecchio trucco per sgomberare il campo da eventuali domande.
Lo chef sembra convinto dalle mie argomentazioni e mette più parole una affianco all’altra costruendo una frase dannatamente inglese ed al centro ci mette una parolina: stage. Nota il mio cambiamento di espressione ed allora quasi si giustifica dicendomi che dovevo pur fare un periodo di stage.
Mi alzo con fare deciso. Ringrazio. Porgo la mano. Saluto e dopo un giorno mi rendo conto di aver fatto una delle figure di merda più clamorose mollando lo chef lì su due piedi mentre mi offriva una possibilita’. Cerco di rimediare facendo immediatamente altri colloqui. Vanno bene. Si arriva a fare lo stage e vengo a conoscenza di quei personaggi sconosciuti di cui parlavo poco prima.
In una cucina italiana di Vancouver a parlare italiano non c’è quasi nessuno.
Partiamo dai camerieri. Anche se parlano italiano non lo faranno certo per amarcord o per venirti incontro nel bel mezzo del servizio.
I lavapiatti: non parlano italiano neppure in Italia figuriamoci qui.
Ma veniamo ai cuochi. In una brigata di cucina non esiste la gentilezza, figuriamoci la disponibilita’ e la comprensione. E’ una caserma la cucina e tu sei l’ultimo arrivato e l’unico mio  vantaggio in questo caso è non capire tutti i loro insulti mentre mi chiedono qualcosa che  non capisco, non eseguo, il piatto non esce, il cliente si lamenta e io ho finito il mio primo giorno di stage che sara’ pure uno ma se continuo così sommandoli tutti torno a casa dopo aver fatto un altro stage di 3 mesi ma in 90 ristoranti diversi.
Mentre guardo il caos della cucina che si materializza nell’ordine del piatto decorato penso a quanto sono stato avventato a non considerare il fattore linguistico come un fattore principale. Alla terza settimana riesco comunque a trovare un posto di lavoro. Il ristorante è splendido, la cucina curata ed elegante e lo chef mi chiede di parlare la lingua internazionale dell'impegno e della passione. Ma poi a parte queste mie  stronzate che scrivo  mi invita a imparare al più presto l’inglese, perché non si tratta solo di una lingua ma di stare al mondo…..
Cerco di organizzarmi per frequentare un corso di inglese ma i costi sono proibitivi e comunque tenuti durante il mio orario di lavoro. Trovo una scuola dove cercano volontari; bisognerebbe fare la cavia per dei ragazzi che studiano e pagano per diventare insegnanti di Inglese. Ottimo.
Niente da fare. le lezioni si tengono durante il mio orario di lavoro. Ma che cazzo di orario di lavoro hai, direte voi. 
Semplicemente proibitivo per un corso di inglese.
Decido allora di fare da solo e di iniziare dai termini tecnici utilizzati in cucina, un po’ di bestemmie ed insulti per comprenderli e poter rispondere e poi un po’ di grammatica. Ammetto che non è molto ortodosso come corso di inglese ma ho capito dall’esperienza dei primi giorni che non conveniva fare troppo affidamento sui canonici corsi di lingua. Durante un corso universitario che avevo seguito in Italia mi era stato spiegato infatti che rispondere what quando non si è capito qualcosa era tremendamente sgarbato, ma uno dei primi cuochi che ho incontrato sulla mia strada non deve aver fatto lo stesso corso visto che mi ha abbaiato un what rabbioso, con la bocca distorta ed un’espressione disgustata. Io aspettavo che sputasse dopo aver masticato ancora una volta il suo boccone di fottuto tabacco ma invece si era voltato blaterando qualcosa che non avevo capito ma  non mi sono certo sognato per questo motivo di chiedergli I beg your pardon sir perché sapevo gia’ che sarebbe finita male.
Sto studiando e mi piace. Riuscire a parlare con la gente, farsi capire. E’ piacevole. Sto rivivendo le fasi della vita. Inizio a parlare con delle frasi che iniziano e finiscono e gli altri rispondono quindi, hanno capito. E’ piacevole, cazzo se è piacevole. Non me ne importa nulla di quello di cui sto parlando e della risposta che ho ricevuto. Ho iniziato un discorso in inglese, ma ve ne rendete conto. Si, l’ho solo iniziato, ma da qualche parte bisognera’ pur cominciare.
Per il boxing day, che è il corrispondente del nostro Santo Stefano, qui ne approfittano per fare sconti molto vantaggiosi e quindi ne ho approfittato per acquistare il mio primo libro in Inglese. Il libro è l’autobiografia di Steve Jobs di Walter Isaacson.
 Sono alle prime pagine ma mi ci trovo bene così ho deciso di fermarmici per un pò.

martedì 13 dicembre 2011

Metti un giorno in centro a Vancouver

INTO THE WILD:

Bear caught in downtown Vancouver set free


 

 

 

 

 

domenica 11 dicembre 2011

NO DURIAN


Lo so che potra’ sembrare una follia ma uno dei primi luoghi dove solitamente mi reco quando sono all’estero sono i supermercati. E’ più forte di me, gia’ dalla barriera casse inizio a notare piccoli ma importanti particolari.
In Italia questa è la zona storicamente occupata dalle pile elettriche e dai rasoi poi con gli anni prepotentemente soppiantati da chevingum e dolcetti vari con l’immancabile ovetto kinder in primo piano perché loro lo sanno che il bambino sferrera’ l’ultimo suo attacco in quel punto preciso. A due metri dall’uscita sono consapevoli che il genitore non ne può più di dire
questo no!
 No, amore di mamma, lo abbiamo a casa
 da qui ci ripassiamo, lo prendiamo dopo
 e allora cede, stremato all’ultimo ovetto. Le chevingum sono invece il tranello per l’adulto e per i suoi spiccioli. Il famoso detto fatto 30 facciamo 31 si applica perfettamente a questo tipo di prodotto. Il pacchetto formato famiglia di chevingum costera’ pochi spicci in confronto a quello acquistato fino a quel momento. Fatto trenta…..
Sono quasi in prossimita’ delle casse e da quello che riesco a veder dall’esterno del supermercato ci sono…le chevingum, piccoli bonbon e ..no da qui non riesco a vedere altro. Entro. La disposizione è sempre quella, è internazionale. Al primo posto televisori piccoli elettrodomestici, etc etc. Ma c’è il corridoio principale situato di fronte all’entrata del ipermercato che è l’altare sacrificale dell’offerta speciale. Quel luogo è l’alcova dei desideri del consumatore. L’ultima volta che sono stato in un supermercato Italiano sono stato accolto  da un totem di pasta in offerta, ci andassi ora ci sarebbero i panettoni e così via. Anche qui trovo una montagna ad attendermi ma ha qualcosa che non riesco a comprendere. E’ una montagna di sacchi bianchi, è come se ci si aspettasse  un’ inondazione e le autorita’ avessero approntato tutte le misure per arginarla. Mi avvicino e lo sguardo si alza ad ogni passo. La montagna è enorme ed ha evidentemente il solo scopo di farsi vedere in quanto sarebbe impossibile tirare via uno di quei sacchi senza causare un genocidio. Ma che razza di prodotto è? E’ contro ogni regola del marketing vendere un prodotto in una confezione che non abbia nessun tipo di iscrizione. Devono contenere in se, quei sacchi, delle informazioni che solo io non riesco a cogliere. Mi apposto fingendo interesse in uno scaffale di fianco alla montagna bianca. Vedo una coppia di asiatici che  la guardano con ammirazione e poi la oltrepassano veloci e caricano sul carrello uno dei sacchi riposti su di uno scaffale specifico. Un cartello bianco scritto a mano con pennarello nero dice semplicemente Rice ed il prezzo.
Lo dicevo che quella montagna aveva parole che solo io non comprendevo.
Vancouver è una citta’ con gli occhi a mandorla, è una citta’ nata dal desiderio di una vita migliore, di un riscatto o a volte solo di una fuga. Ha tanti volti, uno per ogni desiderio realizzato o in realizzazione.
Osservo i clienti ma soprattutto i contenitori dei desideri: i carrelli ed i cestelli.
I carrelli sono enormi, diversi da quelli a cui siamo abituati, pronti a contenere più desideri. I cestelli a mano sono molto particolari, nascondono un contrappasso per chi ha deciso di comprare poco. Non sono infatti comodi, con le ruotine come quelli italiani ma hanno al posto dei manici due corde che ti segano le mani nel caso ti venisse la malaugurata idea di acquistare molta roba. E’ una scomodita’ che paghi per non aver scelto il carrello grande, per non aver scelto di comprare, forse.

Il mio obiettivo ovviamente è il reparto food, è qui che puoi conoscere la gente di una citta’ prima che dai suoi monumenti, dalla sua storia. Qui risiede il dna di una popolazione. IL CIBO.
Passo tra gli scaffali veloce in direzione del reparto pescheria…..
Salmone Rosso Sockeye
Niente banco con il ghiaccio ma acquari. Trote vive, granchi enormi e tilapia vive anche queste. Le tilapie sono un po’ come il riso hanno seguito i desideri dei loro consumatori qui in terra canadese. Un intero reparto frigorifero è destinato al salmone, e qui mi ci soffermo con attenzione, cerco lui, quello che non ho mai visto fresco e da vicino, il sockeye salmon. Il salmone selvaggio. Non ha niente a che vedere con il nostro salmone. Il sockeye ha la carne rossa e , dovrebbe, essere selvaggio. Dico dovrebbe perché poi alla fine ci hanno ficcato anche lui in una vasca ad ingrassare. L’avete visto sicuramente in qualche documentario in TV, è quello che ogni anno con la sua sensibilita’ manifestata nella voglia di tornare nel luogo dov’è nato per deporre le uova riesce a salvare l’orso da morte certa sfamandolo in abbondanza. C’è un’istantanea negli occhi di tutti quelli che hanno visto uno di questi documentari: l’orso fermo in acqua ed il salmone che gli salta in bocca. Il nome di questo salmone è una storpiatura che gli inglesi hanno fatto del nome che i nativi davano al pesce ovvero suk-kegh che letteralmente significa pesce rosso. Per i nativi che vivevano queste zone prima che arrivassero i “civilizzatori” il salmone era un pesce sacro e rispettato  quasi quanto lo è dagli orsi.
Cherimoya
Ultimo reparto prima di uscire non può che essere l’ortofrutta, e qui faccio compere. Mi preparo, cerco i guanti, non esistono. Ok, mi armo di busta e scarto i mandarini biologici made in China vedendoci in queste due connotati un qualcosa di stridente, cerco prodotti locali e mi imbatto in un cesto di cherimoya provenienti dal Messico. Le cherimoya hanno la forma ovale e una superficie che sembra essere stata tagliuzzata con un coltello molto affilato in quanto presenta molte sfaccettature, è come…è quasi come una pigna chiusa . Mi era capitato di assaggiarla in Spagna ed il sapore che richiama vagamente una pera matura non mi aveva molto convinto.
Comincio a riempire la busta con dei gai lon ed un’altra con Bok Choy entrambi coltivati in Canada. Il primo è il cosiddetto broccolo cinese il secondo richiama la forma della bieta ed è sicuramente della stessa famiglia ma di più piccole dimensioni. E’ come se della bietola fosse stato preso solo il cuore. Entrambi questi prodotti sono, manco a dirlo,  molto utilizzati dalla cucina cinese.
 Il reparto con le mele è sterminato e tutte hanno una caratteristica a mio modo di vedere sconfortante: le mele sono lucidissime, riflettono l luci del supermercato come tante pietre preziose. Uguali e lucide, lucide e uguali non riesco a prenderle. Ho paura di finire vittima di un incantesimo, ho paura di specchiar mici dentro.
Ma mentre sto per abbandonare definitivamente il reparto vedo una cosa, un’arma o…ma cos’è. Leggo il cartello che ha come titolo il nome del frutto ovvero DURIAN e come sottotitolo la metodogia di conservazione, frozen.
Cartello affisso a  Singapore
Il durian ha una superficie spinosa, è come una stella del mattino, quell’arma caratterizzata da una palla dotata di chiodi. Il motivo del perché sia congelato è presto spiegato facendo una brevissima ricerca su internet. Il durian emana uno sgradevolissimo odore che è stato descritto come di fogna, acqua fatiscente, alimento andato a male e via dicendo. Pensate che in alcune citta’, come per esempio Singapore, l’introduzione dei durian è severamente vietata.
Un’ultima cosa. Non posso uscire senza sciroppo d’acero. Lo trovo, lo valuto in base agli ingredienti, scarto quello che contiene caramello e mi preparo ad uscire. Vagando per le corsie con il cestello che mi sega le mani per colpa della confezione da litro di sciroppo d’acero vedo che tutto è venduto in confezioni enormi, più grandi rispetto alle nostre confezioni risparmio. Sembra ci siano prodotti per uomini e per una razza nuova, più grande, con più necessita’, con più desideri. Una razza nuova con carrelli giganti spinti da uomini piccoli.
Corro a casa a provare i gai lon.
Ah dimenticavo, tra un rigo e l’altro ho trovato casa.

martedì 6 dicembre 2011


 
Perché una mela?
E’ una domanda che mi sono posto per anni e mi ha sempre incuriosito il perché di quel frutto al posto di un altro.
Eva si trovava con quell’altro che non aveva tutte le costole a posto in un giardino spettacolare dove c’era tutto, ma davvero di tutto. L’unico frutto che non potevano toccare era la mela. Ma perché?
Ricordo di aver letto da qualche parte che se provi a tagliare una mela in senso verticale potrai vedere al suo centro una netta somiglianza con il sesso femminile.
Ma dai, non può certo essere questo il motivo e poi non penso che abbiano fatto la prova su tutti i frutti prima di decidere. Non ce li vedo lì seduti a tagliare frutti e a chiedersi se vedevano qualcosa.
Un altro taglio possibile, della mela intendo, è quello orizzontale. In questo caso otterrete, guardando sempre nel centro, una stella a cinque punte ovverosia il simbolo del diavolo.
Se neppure questa ipotesi vi convince tanto allora provate ad assaggiarla una mela:
turgida, lucida, dolce e acidula. E’ la tentazione fatta frutta.
Mah. Vuoi mettere le fragole le ciliegie….
Forse allora la storia più convincente è quella dei Druidi, si avete capito bene, quelli di Avalon, l’isola delle mele e del cidro. Questi mangiamele non andavano particolarmente a genio alle gerarchie cattoliche del tempo e allora….
Allora così avrebbe senso. Il frutto maledetto che ha condotto sulla via del peccato un intero popolo. Quale modo migliore per dire che la loro fede è cattiva se non nominare il loro frutto prediletto il frutto del peccato.
Come è andata a finire non ve lo dico neppure, fatto sta però che qualche rivincita i mangiamele se la sono presa, se di rivincita si può parlare; ogni anno, molti di noi rivivono la sbornia di Anthor (da cui deriva forse la radice del nome di un famoso farmaco contro i riflussi esofagei.) mentre addobbava ed adorava, come si usava fare, un albero di abete con grossi pomi rossi. Vi ricorda qualcosa? Alle stelle filanti non  voglio dare spiegazione per non scadere nello splatter, ma se aveste visto che razza di sbornia aveva preso Anthor vi sarebbe abbastanza facile capire di cosa stiamo parlando.
Ma torniamo alla nostra primadonna. Eva coglie la mela e si accorge di non aver messo niente addosso prima di uscire quella mattina e da qui in poi la storia la conoscete.
Eva è l’inizio, nel bene e nel male, che ci si creda o no è il simbolo dell’inizio e io non avrei mai pensato ad un inizio del genere. Vi spiego meglio. Sono alla ricerca di un caffè e trovo uno Starbucks. Dalla porta a vetri vedo una lunga fila di persone che attendono di ordinare in maniera molto composta. Il locale ha due entrate, o meglio, un’entrata ed un’uscita  collegate da una sorta di budello in cui ci sono i clienti in fila. Non riesco a capire però il perché siamo in fila solo da un lato, mi sporgo per vedere se si è rovesciato del caffè per terra lungo il lato libero. Niente, tutto perfettamente pulito. Una, unica ed ordinata. Rientro con la testa nella sagoma della fila ed attendo da un momento all’altro quello lì che deve chiedere solo un’informazione. C’è sempre dove c’è una fila. Se voi provate a creare una fila nel vuoto di una piazza, una fila che non ha scopo alcuno, ebbene arrivera’ quello dell’informazione, quello che ci vogliono solo due secondi. E’ quasi il mio turno. Guardo il menù gigante affisso sopra al bancone e mi preparo ripetendo la parte e schiarendomi la voce. Un senso di piacere mi pervade quando vedo scritto, espresso, cappuccino, Caramel macchiato. Ma allora posso dirlo in italiano anticipando solo il nome del prodotto con la quantita’ desiderata e un please finale per non passare da cafone. Ma non basta. Bisogna specificare la taglia che è scritta piccola, troppo piccola e mentre arriva il mio turno aguzzo lo sguardo e sto quasi per scavalcare il bancone per leggere cosa cazzo c’è scritto…..
E' il mio turno.
 Sara’ un effetto psicologico ma ogni qual volta mi trovo a dover parlare inglese in queste situazioni si crea un silenzio irreale intorno a me.
 Vi ricordate a scuola? Tu sei alla cattedra ed il giorno prima eri convinto che era impossibile che chiamasse proprio te. La professoressa attende una tua risposta ma in cuor suo sa gia’ che non ci sara’, così si limita solo ad aumentare l’agonia giocherellando con le chiavi della sua macchina. La maestra si perde nel tintinnio delle chiavi, la classe se ne accorge ed inizia a rumoreggiare sempre più forte e tu ti senti come il condannato che guarda la folla scomposta sotto al patibolo. La professoressa lascia una mano sola a giocare  con le chiavi e alza l’altra sopra la sua testa fino a farla cadere rumorosamente sulla cattedra. E’ il rullo di tamburi prima della ghigliottina. La piazza tace, in attesa.
E’ la stessa sensazione che avverto ora. Esordisco con un Yes assolutamente non richiesto. La mia ordinazione è one Caramello Macchiato. Dall’altra parte il tipo mi dice solo sorry prima di avvicinarsi con la testa. Non ha capito! Ma come non ha capito? Caramello è italiano ed io sono Italiano, macchiato è italiano ed io sono italiano. Come ho potuto sbagliare anche questa volta? Lo ripeto e allora lui lo ripete dopo di me, con il suo accento e solo così lo capisce. Il suono è effettivamente diverso, mancano tutte le doppie, caramello ha un suono sinuoso, dolciastro e appiccicoso mentre macchiato ha perso tutta la cattiveria della doppia c.
E’ finita? Macchè, mi chiede la taglia. Non la so, la taglia non la so, io non riesco a leggere, guardi faccia the first one from the left in the menù. Pago e tiro un sospiro di sollievo. Lui prende un pennarello e si prepara a scrivere dopo avermi chiesto qualcosa. Capisco solo your name, please?
Ho un flash, quello che si potrebbe definire un colpo di genio. Una vocina nell’orecchio sinistro mi consiglia di rispondere senza tentennamenti: John, my name is John. John lo capira’ di sicuro, c’è in tutti i films americani uno che si chiama john. Non colgo l’attimo e dico il mio vero nome. Lui mi chiede immediatamente lo spelling ed io impreparato inizio lo spelling come se fossi al bar dello sport, inizio lo spelling in italiano. Il mio nome inizia con la i e la lui scrive e. Me ne accorgo e corro ai ripari v, ei but you have to change the first one. La fila rumoreggia, silenziosamente, con piccoli colpi di tosse che mi colpiscono alle spalle. Niente da fare, lui ha scritto le tre lettere che gli ho dettato. Niente di più.. Il risultato è EVA, scritto nero e grosso su di una fascettina di carta che loro mettono attorno al tuo bicchiere di carta per bruciarti solo quando sarai fuori dal locale e non lì davanti al bancone. Mi dice di aspettare che a momenti sara’ pronto.
Non sono solo, sono in molti ad aspettare. Li guardo con complicita’ poi li riguardo con terrore prevedendo cosa sta per succedere. Se siamo in tanti e mi hanno chiesto il nome……..oh no mi stanno per chiamare!
La vocina ricompare e mi invita ad andarmene subito a salvarmi finchè sono in tempo. Tentenno e la vocina mi manda a quel paese mentre vedo la cameriera alzare un bicchierone con una schiuma bianca in cima. Urla quel nome come se le avessero chiuso una mano nel cassetto. EVA, CARAMELLO MACCHIATO for EVAAA. Mi guardo intorno per capire quanta gente c’è in fila. Tanta, e tutti muoiono dalla voglia di conoscere Eva. Al terzo richiamo il cassiere che mi aveva servito mi guarda ed io rispondo al suo sguardo socchiudendo gli occhi e appuntendo le labbra. Capisce che se prova ad additarmi gli salto addosso.
Mi stacco dal gruppo con passo fiero, con l’espressione di che era sovrappensiero, sradico il mio beverone dalla mano dalla cameriera che stava per tornare ad urlare, ed esco.
Lo sorseggio piano, avrei voglia di scoppiare a ridere.
Mi siedo ed una domanda mi frulla costantemente nella testa: cosa sarebbe successo se Eva avesse preso un Caramello Macchiato al posto di quella dannatissima mela?