martedì 27 dicembre 2011

Behind


Bisogna tornare un po’ indietro e quale giorno migliore per farlo se non il 25 dicembre 2011 alle ore 18:00 di un pomeriggio immobile a Vancouver. La giornata è passata attendendo che passasse inchiodato con gli occhi alla finestra mentre la pioggia continuava ad allagare i parchi ed a confondere i gabbiani.
Behind. Indietro di un anno, ci aggiungo 9 ore e taglio di corsa La Alameda a Sevilla varcando le colonne d’Ercole senza neppure bagnarmi un mignolo. Il 25 dicembre ha la sua tipica aria di giornata casalinga, un po’ soporifera, introversa, familiare. L’abbuffata a pranzo concilia la lentezza, il sentirsi in diritto di attendere che la giornata passi, così. In fondo è Natale. 
Mi riprometto di smentire totalmente questa mia descrizione passando il prossimo Natale in spiaggia a Melbourne con il costume rosso.
Sono andato troppo dietro con la mente, Siviglia è lontana e qui a Vancouver dopo una breve parentesi selvaggia in downtown che ha fatto pensare a tutti i passanti che stessero girando un film ed ha fatto pensare ad un orso che se quello era un film, beh allora era proprio un film di merda, ho trovato casa e lavoro.
Sono riuscito a trovare una stanza a 15 minuti di skytrain dal centro. Una sistemazione tranquilla a poco prezzo e, cosa da non sottovalutare, con la presenza di una ragazza italiana che mi ha facilitato di molto l’impresa. Per quanto riguarda il lavoro è stato più complicato di quanto pensassi, ma non perché non ci siano occasioni, solo perché ho sicuramente peccato di superficialita’. Ebbene si, lo ammetto. Sono partito dall'Italia sulle ali dell’entusiamo, e va bene. Sono partito convinto che certi colpi di testa facciano bene allo spirito, e siamo d’accordo. Sono partito convinto che l’inglese l’avrei poi “praticato” sul luogo, che per un lavoro in una cucina italiana potesse bastare la lingua madre. Sbagliato. Nella mia visione avevo omesso tutta una serie di personaggi che mi si sono materializzati il primo giorno di stage.
Oh no, non stage in quel senso. A quel punto restavo in Italia. Lo stage qui è inteso come il giorno di prova. Il giorno, uno.
Una delle mie prime interview è andata malissimo.
Inizio molto tranquillamente a ripetere il mio resume inanellando competenze, abilita’, qualita’ professionali e descrivendo tutto con molta continuita’,vecchio trucco per sgomberare il campo da eventuali domande.
Lo chef sembra convinto dalle mie argomentazioni e mette più parole una affianco all’altra costruendo una frase dannatamente inglese ed al centro ci mette una parolina: stage. Nota il mio cambiamento di espressione ed allora quasi si giustifica dicendomi che dovevo pur fare un periodo di stage.
Mi alzo con fare deciso. Ringrazio. Porgo la mano. Saluto e dopo un giorno mi rendo conto di aver fatto una delle figure di merda più clamorose mollando lo chef lì su due piedi mentre mi offriva una possibilita’. Cerco di rimediare facendo immediatamente altri colloqui. Vanno bene. Si arriva a fare lo stage e vengo a conoscenza di quei personaggi sconosciuti di cui parlavo poco prima.
In una cucina italiana di Vancouver a parlare italiano non c’è quasi nessuno.
Partiamo dai camerieri. Anche se parlano italiano non lo faranno certo per amarcord o per venirti incontro nel bel mezzo del servizio.
I lavapiatti: non parlano italiano neppure in Italia figuriamoci qui.
Ma veniamo ai cuochi. In una brigata di cucina non esiste la gentilezza, figuriamoci la disponibilita’ e la comprensione. E’ una caserma la cucina e tu sei l’ultimo arrivato e l’unico mio  vantaggio in questo caso è non capire tutti i loro insulti mentre mi chiedono qualcosa che  non capisco, non eseguo, il piatto non esce, il cliente si lamenta e io ho finito il mio primo giorno di stage che sara’ pure uno ma se continuo così sommandoli tutti torno a casa dopo aver fatto un altro stage di 3 mesi ma in 90 ristoranti diversi.
Mentre guardo il caos della cucina che si materializza nell’ordine del piatto decorato penso a quanto sono stato avventato a non considerare il fattore linguistico come un fattore principale. Alla terza settimana riesco comunque a trovare un posto di lavoro. Il ristorante è splendido, la cucina curata ed elegante e lo chef mi chiede di parlare la lingua internazionale dell'impegno e della passione. Ma poi a parte queste mie  stronzate che scrivo  mi invita a imparare al più presto l’inglese, perché non si tratta solo di una lingua ma di stare al mondo…..
Cerco di organizzarmi per frequentare un corso di inglese ma i costi sono proibitivi e comunque tenuti durante il mio orario di lavoro. Trovo una scuola dove cercano volontari; bisognerebbe fare la cavia per dei ragazzi che studiano e pagano per diventare insegnanti di Inglese. Ottimo.
Niente da fare. le lezioni si tengono durante il mio orario di lavoro. Ma che cazzo di orario di lavoro hai, direte voi. 
Semplicemente proibitivo per un corso di inglese.
Decido allora di fare da solo e di iniziare dai termini tecnici utilizzati in cucina, un po’ di bestemmie ed insulti per comprenderli e poter rispondere e poi un po’ di grammatica. Ammetto che non è molto ortodosso come corso di inglese ma ho capito dall’esperienza dei primi giorni che non conveniva fare troppo affidamento sui canonici corsi di lingua. Durante un corso universitario che avevo seguito in Italia mi era stato spiegato infatti che rispondere what quando non si è capito qualcosa era tremendamente sgarbato, ma uno dei primi cuochi che ho incontrato sulla mia strada non deve aver fatto lo stesso corso visto che mi ha abbaiato un what rabbioso, con la bocca distorta ed un’espressione disgustata. Io aspettavo che sputasse dopo aver masticato ancora una volta il suo boccone di fottuto tabacco ma invece si era voltato blaterando qualcosa che non avevo capito ma  non mi sono certo sognato per questo motivo di chiedergli I beg your pardon sir perché sapevo gia’ che sarebbe finita male.
Sto studiando e mi piace. Riuscire a parlare con la gente, farsi capire. E’ piacevole. Sto rivivendo le fasi della vita. Inizio a parlare con delle frasi che iniziano e finiscono e gli altri rispondono quindi, hanno capito. E’ piacevole, cazzo se è piacevole. Non me ne importa nulla di quello di cui sto parlando e della risposta che ho ricevuto. Ho iniziato un discorso in inglese, ma ve ne rendete conto. Si, l’ho solo iniziato, ma da qualche parte bisognera’ pur cominciare.
Per il boxing day, che è il corrispondente del nostro Santo Stefano, qui ne approfittano per fare sconti molto vantaggiosi e quindi ne ho approfittato per acquistare il mio primo libro in Inglese. Il libro è l’autobiografia di Steve Jobs di Walter Isaacson.
 Sono alle prime pagine ma mi ci trovo bene così ho deciso di fermarmici per un pò.

martedì 13 dicembre 2011

Metti un giorno in centro a Vancouver

INTO THE WILD:

Bear caught in downtown Vancouver set free


 

 

 

 

 

domenica 11 dicembre 2011

NO DURIAN


Lo so che potra’ sembrare una follia ma uno dei primi luoghi dove solitamente mi reco quando sono all’estero sono i supermercati. E’ più forte di me, gia’ dalla barriera casse inizio a notare piccoli ma importanti particolari.
In Italia questa è la zona storicamente occupata dalle pile elettriche e dai rasoi poi con gli anni prepotentemente soppiantati da chevingum e dolcetti vari con l’immancabile ovetto kinder in primo piano perché loro lo sanno che il bambino sferrera’ l’ultimo suo attacco in quel punto preciso. A due metri dall’uscita sono consapevoli che il genitore non ne può più di dire
questo no!
 No, amore di mamma, lo abbiamo a casa
 da qui ci ripassiamo, lo prendiamo dopo
 e allora cede, stremato all’ultimo ovetto. Le chevingum sono invece il tranello per l’adulto e per i suoi spiccioli. Il famoso detto fatto 30 facciamo 31 si applica perfettamente a questo tipo di prodotto. Il pacchetto formato famiglia di chevingum costera’ pochi spicci in confronto a quello acquistato fino a quel momento. Fatto trenta…..
Sono quasi in prossimita’ delle casse e da quello che riesco a veder dall’esterno del supermercato ci sono…le chevingum, piccoli bonbon e ..no da qui non riesco a vedere altro. Entro. La disposizione è sempre quella, è internazionale. Al primo posto televisori piccoli elettrodomestici, etc etc. Ma c’è il corridoio principale situato di fronte all’entrata del ipermercato che è l’altare sacrificale dell’offerta speciale. Quel luogo è l’alcova dei desideri del consumatore. L’ultima volta che sono stato in un supermercato Italiano sono stato accolto  da un totem di pasta in offerta, ci andassi ora ci sarebbero i panettoni e così via. Anche qui trovo una montagna ad attendermi ma ha qualcosa che non riesco a comprendere. E’ una montagna di sacchi bianchi, è come se ci si aspettasse  un’ inondazione e le autorita’ avessero approntato tutte le misure per arginarla. Mi avvicino e lo sguardo si alza ad ogni passo. La montagna è enorme ed ha evidentemente il solo scopo di farsi vedere in quanto sarebbe impossibile tirare via uno di quei sacchi senza causare un genocidio. Ma che razza di prodotto è? E’ contro ogni regola del marketing vendere un prodotto in una confezione che non abbia nessun tipo di iscrizione. Devono contenere in se, quei sacchi, delle informazioni che solo io non riesco a cogliere. Mi apposto fingendo interesse in uno scaffale di fianco alla montagna bianca. Vedo una coppia di asiatici che  la guardano con ammirazione e poi la oltrepassano veloci e caricano sul carrello uno dei sacchi riposti su di uno scaffale specifico. Un cartello bianco scritto a mano con pennarello nero dice semplicemente Rice ed il prezzo.
Lo dicevo che quella montagna aveva parole che solo io non comprendevo.
Vancouver è una citta’ con gli occhi a mandorla, è una citta’ nata dal desiderio di una vita migliore, di un riscatto o a volte solo di una fuga. Ha tanti volti, uno per ogni desiderio realizzato o in realizzazione.
Osservo i clienti ma soprattutto i contenitori dei desideri: i carrelli ed i cestelli.
I carrelli sono enormi, diversi da quelli a cui siamo abituati, pronti a contenere più desideri. I cestelli a mano sono molto particolari, nascondono un contrappasso per chi ha deciso di comprare poco. Non sono infatti comodi, con le ruotine come quelli italiani ma hanno al posto dei manici due corde che ti segano le mani nel caso ti venisse la malaugurata idea di acquistare molta roba. E’ una scomodita’ che paghi per non aver scelto il carrello grande, per non aver scelto di comprare, forse.

Il mio obiettivo ovviamente è il reparto food, è qui che puoi conoscere la gente di una citta’ prima che dai suoi monumenti, dalla sua storia. Qui risiede il dna di una popolazione. IL CIBO.
Passo tra gli scaffali veloce in direzione del reparto pescheria…..
Salmone Rosso Sockeye
Niente banco con il ghiaccio ma acquari. Trote vive, granchi enormi e tilapia vive anche queste. Le tilapie sono un po’ come il riso hanno seguito i desideri dei loro consumatori qui in terra canadese. Un intero reparto frigorifero è destinato al salmone, e qui mi ci soffermo con attenzione, cerco lui, quello che non ho mai visto fresco e da vicino, il sockeye salmon. Il salmone selvaggio. Non ha niente a che vedere con il nostro salmone. Il sockeye ha la carne rossa e , dovrebbe, essere selvaggio. Dico dovrebbe perché poi alla fine ci hanno ficcato anche lui in una vasca ad ingrassare. L’avete visto sicuramente in qualche documentario in TV, è quello che ogni anno con la sua sensibilita’ manifestata nella voglia di tornare nel luogo dov’è nato per deporre le uova riesce a salvare l’orso da morte certa sfamandolo in abbondanza. C’è un’istantanea negli occhi di tutti quelli che hanno visto uno di questi documentari: l’orso fermo in acqua ed il salmone che gli salta in bocca. Il nome di questo salmone è una storpiatura che gli inglesi hanno fatto del nome che i nativi davano al pesce ovvero suk-kegh che letteralmente significa pesce rosso. Per i nativi che vivevano queste zone prima che arrivassero i “civilizzatori” il salmone era un pesce sacro e rispettato  quasi quanto lo è dagli orsi.
Cherimoya
Ultimo reparto prima di uscire non può che essere l’ortofrutta, e qui faccio compere. Mi preparo, cerco i guanti, non esistono. Ok, mi armo di busta e scarto i mandarini biologici made in China vedendoci in queste due connotati un qualcosa di stridente, cerco prodotti locali e mi imbatto in un cesto di cherimoya provenienti dal Messico. Le cherimoya hanno la forma ovale e una superficie che sembra essere stata tagliuzzata con un coltello molto affilato in quanto presenta molte sfaccettature, è come…è quasi come una pigna chiusa . Mi era capitato di assaggiarla in Spagna ed il sapore che richiama vagamente una pera matura non mi aveva molto convinto.
Comincio a riempire la busta con dei gai lon ed un’altra con Bok Choy entrambi coltivati in Canada. Il primo è il cosiddetto broccolo cinese il secondo richiama la forma della bieta ed è sicuramente della stessa famiglia ma di più piccole dimensioni. E’ come se della bietola fosse stato preso solo il cuore. Entrambi questi prodotti sono, manco a dirlo,  molto utilizzati dalla cucina cinese.
 Il reparto con le mele è sterminato e tutte hanno una caratteristica a mio modo di vedere sconfortante: le mele sono lucidissime, riflettono l luci del supermercato come tante pietre preziose. Uguali e lucide, lucide e uguali non riesco a prenderle. Ho paura di finire vittima di un incantesimo, ho paura di specchiar mici dentro.
Ma mentre sto per abbandonare definitivamente il reparto vedo una cosa, un’arma o…ma cos’è. Leggo il cartello che ha come titolo il nome del frutto ovvero DURIAN e come sottotitolo la metodogia di conservazione, frozen.
Cartello affisso a  Singapore
Il durian ha una superficie spinosa, è come una stella del mattino, quell’arma caratterizzata da una palla dotata di chiodi. Il motivo del perché sia congelato è presto spiegato facendo una brevissima ricerca su internet. Il durian emana uno sgradevolissimo odore che è stato descritto come di fogna, acqua fatiscente, alimento andato a male e via dicendo. Pensate che in alcune citta’, come per esempio Singapore, l’introduzione dei durian è severamente vietata.
Un’ultima cosa. Non posso uscire senza sciroppo d’acero. Lo trovo, lo valuto in base agli ingredienti, scarto quello che contiene caramello e mi preparo ad uscire. Vagando per le corsie con il cestello che mi sega le mani per colpa della confezione da litro di sciroppo d’acero vedo che tutto è venduto in confezioni enormi, più grandi rispetto alle nostre confezioni risparmio. Sembra ci siano prodotti per uomini e per una razza nuova, più grande, con più necessita’, con più desideri. Una razza nuova con carrelli giganti spinti da uomini piccoli.
Corro a casa a provare i gai lon.
Ah dimenticavo, tra un rigo e l’altro ho trovato casa.

martedì 6 dicembre 2011


 
Perché una mela?
E’ una domanda che mi sono posto per anni e mi ha sempre incuriosito il perché di quel frutto al posto di un altro.
Eva si trovava con quell’altro che non aveva tutte le costole a posto in un giardino spettacolare dove c’era tutto, ma davvero di tutto. L’unico frutto che non potevano toccare era la mela. Ma perché?
Ricordo di aver letto da qualche parte che se provi a tagliare una mela in senso verticale potrai vedere al suo centro una netta somiglianza con il sesso femminile.
Ma dai, non può certo essere questo il motivo e poi non penso che abbiano fatto la prova su tutti i frutti prima di decidere. Non ce li vedo lì seduti a tagliare frutti e a chiedersi se vedevano qualcosa.
Un altro taglio possibile, della mela intendo, è quello orizzontale. In questo caso otterrete, guardando sempre nel centro, una stella a cinque punte ovverosia il simbolo del diavolo.
Se neppure questa ipotesi vi convince tanto allora provate ad assaggiarla una mela:
turgida, lucida, dolce e acidula. E’ la tentazione fatta frutta.
Mah. Vuoi mettere le fragole le ciliegie….
Forse allora la storia più convincente è quella dei Druidi, si avete capito bene, quelli di Avalon, l’isola delle mele e del cidro. Questi mangiamele non andavano particolarmente a genio alle gerarchie cattoliche del tempo e allora….
Allora così avrebbe senso. Il frutto maledetto che ha condotto sulla via del peccato un intero popolo. Quale modo migliore per dire che la loro fede è cattiva se non nominare il loro frutto prediletto il frutto del peccato.
Come è andata a finire non ve lo dico neppure, fatto sta però che qualche rivincita i mangiamele se la sono presa, se di rivincita si può parlare; ogni anno, molti di noi rivivono la sbornia di Anthor (da cui deriva forse la radice del nome di un famoso farmaco contro i riflussi esofagei.) mentre addobbava ed adorava, come si usava fare, un albero di abete con grossi pomi rossi. Vi ricorda qualcosa? Alle stelle filanti non  voglio dare spiegazione per non scadere nello splatter, ma se aveste visto che razza di sbornia aveva preso Anthor vi sarebbe abbastanza facile capire di cosa stiamo parlando.
Ma torniamo alla nostra primadonna. Eva coglie la mela e si accorge di non aver messo niente addosso prima di uscire quella mattina e da qui in poi la storia la conoscete.
Eva è l’inizio, nel bene e nel male, che ci si creda o no è il simbolo dell’inizio e io non avrei mai pensato ad un inizio del genere. Vi spiego meglio. Sono alla ricerca di un caffè e trovo uno Starbucks. Dalla porta a vetri vedo una lunga fila di persone che attendono di ordinare in maniera molto composta. Il locale ha due entrate, o meglio, un’entrata ed un’uscita  collegate da una sorta di budello in cui ci sono i clienti in fila. Non riesco a capire però il perché siamo in fila solo da un lato, mi sporgo per vedere se si è rovesciato del caffè per terra lungo il lato libero. Niente, tutto perfettamente pulito. Una, unica ed ordinata. Rientro con la testa nella sagoma della fila ed attendo da un momento all’altro quello lì che deve chiedere solo un’informazione. C’è sempre dove c’è una fila. Se voi provate a creare una fila nel vuoto di una piazza, una fila che non ha scopo alcuno, ebbene arrivera’ quello dell’informazione, quello che ci vogliono solo due secondi. E’ quasi il mio turno. Guardo il menù gigante affisso sopra al bancone e mi preparo ripetendo la parte e schiarendomi la voce. Un senso di piacere mi pervade quando vedo scritto, espresso, cappuccino, Caramel macchiato. Ma allora posso dirlo in italiano anticipando solo il nome del prodotto con la quantita’ desiderata e un please finale per non passare da cafone. Ma non basta. Bisogna specificare la taglia che è scritta piccola, troppo piccola e mentre arriva il mio turno aguzzo lo sguardo e sto quasi per scavalcare il bancone per leggere cosa cazzo c’è scritto…..
E' il mio turno.
 Sara’ un effetto psicologico ma ogni qual volta mi trovo a dover parlare inglese in queste situazioni si crea un silenzio irreale intorno a me.
 Vi ricordate a scuola? Tu sei alla cattedra ed il giorno prima eri convinto che era impossibile che chiamasse proprio te. La professoressa attende una tua risposta ma in cuor suo sa gia’ che non ci sara’, così si limita solo ad aumentare l’agonia giocherellando con le chiavi della sua macchina. La maestra si perde nel tintinnio delle chiavi, la classe se ne accorge ed inizia a rumoreggiare sempre più forte e tu ti senti come il condannato che guarda la folla scomposta sotto al patibolo. La professoressa lascia una mano sola a giocare  con le chiavi e alza l’altra sopra la sua testa fino a farla cadere rumorosamente sulla cattedra. E’ il rullo di tamburi prima della ghigliottina. La piazza tace, in attesa.
E’ la stessa sensazione che avverto ora. Esordisco con un Yes assolutamente non richiesto. La mia ordinazione è one Caramello Macchiato. Dall’altra parte il tipo mi dice solo sorry prima di avvicinarsi con la testa. Non ha capito! Ma come non ha capito? Caramello è italiano ed io sono Italiano, macchiato è italiano ed io sono italiano. Come ho potuto sbagliare anche questa volta? Lo ripeto e allora lui lo ripete dopo di me, con il suo accento e solo così lo capisce. Il suono è effettivamente diverso, mancano tutte le doppie, caramello ha un suono sinuoso, dolciastro e appiccicoso mentre macchiato ha perso tutta la cattiveria della doppia c.
E’ finita? Macchè, mi chiede la taglia. Non la so, la taglia non la so, io non riesco a leggere, guardi faccia the first one from the left in the menù. Pago e tiro un sospiro di sollievo. Lui prende un pennarello e si prepara a scrivere dopo avermi chiesto qualcosa. Capisco solo your name, please?
Ho un flash, quello che si potrebbe definire un colpo di genio. Una vocina nell’orecchio sinistro mi consiglia di rispondere senza tentennamenti: John, my name is John. John lo capira’ di sicuro, c’è in tutti i films americani uno che si chiama john. Non colgo l’attimo e dico il mio vero nome. Lui mi chiede immediatamente lo spelling ed io impreparato inizio lo spelling come se fossi al bar dello sport, inizio lo spelling in italiano. Il mio nome inizia con la i e la lui scrive e. Me ne accorgo e corro ai ripari v, ei but you have to change the first one. La fila rumoreggia, silenziosamente, con piccoli colpi di tosse che mi colpiscono alle spalle. Niente da fare, lui ha scritto le tre lettere che gli ho dettato. Niente di più.. Il risultato è EVA, scritto nero e grosso su di una fascettina di carta che loro mettono attorno al tuo bicchiere di carta per bruciarti solo quando sarai fuori dal locale e non lì davanti al bancone. Mi dice di aspettare che a momenti sara’ pronto.
Non sono solo, sono in molti ad aspettare. Li guardo con complicita’ poi li riguardo con terrore prevedendo cosa sta per succedere. Se siamo in tanti e mi hanno chiesto il nome……..oh no mi stanno per chiamare!
La vocina ricompare e mi invita ad andarmene subito a salvarmi finchè sono in tempo. Tentenno e la vocina mi manda a quel paese mentre vedo la cameriera alzare un bicchierone con una schiuma bianca in cima. Urla quel nome come se le avessero chiuso una mano nel cassetto. EVA, CARAMELLO MACCHIATO for EVAAA. Mi guardo intorno per capire quanta gente c’è in fila. Tanta, e tutti muoiono dalla voglia di conoscere Eva. Al terzo richiamo il cassiere che mi aveva servito mi guarda ed io rispondo al suo sguardo socchiudendo gli occhi e appuntendo le labbra. Capisce che se prova ad additarmi gli salto addosso.
Mi stacco dal gruppo con passo fiero, con l’espressione di che era sovrappensiero, sradico il mio beverone dalla mano dalla cameriera che stava per tornare ad urlare, ed esco.
Lo sorseggio piano, avrei voglia di scoppiare a ridere.
Mi siedo ed una domanda mi frulla costantemente nella testa: cosa sarebbe successo se Eva avesse preso un Caramello Macchiato al posto di quella dannatissima mela?

lunedì 5 dicembre 2011

Bianco metallizzato


La prima sveglia di Vancouver ha una luce tenue e sconosciuta. Non riesco a capire che ore sono. Sposto la tenda di plastica e tela marron e quello che vedo è un paesaggio scomposto in centinaia di goccioline di condensa. Passo una mano sul vetro rompendo il fragile equilibrio  e la prima immagine canadese si materializza nel solco della mano. Sono le sette del mattino. Davanti a me, nel varco d’acqua che si è creato c’è una casetta bassa in legno con il tetto spiovente e poi un’altra e un’altra ancora e poi ricomincia la condensa sul vetro. Il mio coinquilino durante la notte è stato divorato da un orso grizzly che ora riposa comodamente nel suo letto, la qual cosa mi sembrava impossibile viste le dimensioni del mio coinquilino, ma me ne sono fatto una ragione ascoltando i continui rantoli che provenivano dal suo letto. Vado in bagno e appena accendo la luce appaio nello specchio con un tappo ancora piantato nell’orecchio sinistro mentre l’altro devo averlo perso nel letto durante la notte. Ecco spiegato come aveva fatto l’orso a fare capolino nel mio primo sogno canadese. Sono impaziente di uscire  e  come un cowboy vado a slegare le mie scarpe, ci monto su ed esco finalmente a Vancou….
Il primo impatto con l’esterno è quello che si ha quando si rimane per un po’ con lo sportello aperto del congelatore per cercare qualcosa che inevitabilmente è nascosto da decine di offerte speciali accumulatesi nei mesi. Il freddo mi inizia a mordere entrambe le orecchie, mentre le mani si azzuffano come due furetti impazziti l’una con l’altra, si strofinano e ritornano nelle loro tane al caldo. La prima cosa che mi colpisce è che le auto hanno tutte lo stesso colore: bianco metallizzato. Il gelo ha coperto tutto e solo in alcuni punti inizia a cedere il passo al colore naturale delle cose. Apro una piccola mappa del quartiere che avevo stampato in tre copie nel caso in cui il pick up non fosse andato a buon fine. Giro e rigiro il foglio A4 nelle mani cercando di capire la mia posizione su quel pezzo di carta e mentre lo faccio mi fermo sul ciglio della strada in prossimita’ di un incrocio. Ma ecco che sopravviene un’automobile e si ferma a due metri dal marciapiede dal quale io giro la mappa come se fosse un volante. L’attesa dura secondi interminabili: mi accorgo dell’automobile e del suo conducente che mi fissa. Mi copro il volto con la mappa e mi guardo intorno per capire il motivo della sua attesa. Non un semaforo né un’automobile. Oh dio, sta aspettando me. Abbasso la mappa con entrambe le mani con fare imbarazzato e incredulo e attraverso guardando l’auto, lì ferma.  A meta’ del percorso alzo la mano in segno di gratitudine come ero solito fare in Italia dopo che la quindicesima automobile non ti aveva fatto attraversare le strisce, la sedicesima ti aveva visto più audace e aveva accellerato e la diciassettesima si era dovuta fermare ed io l’avevo ringraziata così, alzando la mano.
Devo stare lontano dal ciglio della strada e non assumere l’espressione di uno che vuole, pensa o immagina di attraversare. Mi giro verso una siepe, spalle alla strada e consulto la mia mappa. Intravedo una signora trascinata dal suo labrador e decido di chiederle delle informazioni. Cerco di parlarle mentre come nell’uscita di scena di una ballerina di tip tap cammina di lato inseguendo la sua mano destra attaccata al guinzaglio. Le ripeto la strada dove vorrei arrivare e lei ha un sussulto da capobranco e tira con energia il guinzaglio. Il cane si impenna per la sosta imprevista e piagnucola:
ho dieci alberi da riconquistare stamani, vediamo di muoverci prima che arrivi l’alano, l’irraggiungibile. La signora prova a spiegarmi ma viene  tirata via nuovamente. Capisco solo ,in dissolvenza, the next street. La strada è costellata da piccole abitazioni in legno ad uno, massimo due piani dai colori che variano dal grigio scuro al bianco. Davanti ad ogni casa c’è un prato ed intorno ad ogni prato un recinto basso in legno. C’è qualcosa di familiare in queste case, questa disposizione, questi colori ma non riesco a capire cosa. Possibile che trent’anni di film e cartoni animati americani abbiano instillato in me questa sensazione di gia’ visto, di gia’ vissuto? Ho passeggiato con gli occhi in questa american street senza saperlo, dal divano di casa. Ma ora è diverso, ora l’immagine è ferma e ci sono io che scorrazzo in cerca di un caffè. Americano ovviamente!

domenica 4 dicembre 2011

....di dolore ostello



Ho prenotato un ostello per i primi giorni. Ho fatto tutto come un vero professionista del viaggio. Ho prenotato su hostelword e subito è arrivata la mia ricevuta con l’indicazione dei giorni di soggiorno. A stretto giro mi è arrivata un’altra mail della proprieta’ dell’ostello che mi chiedeva info riguardo il mio volo e soprattutto di chiamarli telefonicamente appena arrivato a Vancouver in modo da rendersi reperibili .

Rendersi reperibili? Ho tradotto male? Può essere. Il traduttore di Google può aver capito tradotto male. Per essere certo chiedo alla mia compagna che l’inglese lo mastica e non lo sputa come invece faccio io.
Confermato. Farsi trovare, quindi non sono sempre presenti sul posto, non c‘è una reception ma allora cosa c’è e soprattutto come faccio se non riesco a contattarli. Sono in grado di arrivare all’ostello ma poi loro come fanno a sapere che son lì.
L’ansia è seduta al mio fianco e mi detta una mail in un inglese perfetto in cui chiedo chiarimenti. La risposta arriva subito a mezzo Iphone chiarendomi che avendo loro in carico diverse guesthouse non possono essere in tutte contemporaneamente e soprattutto in maniera continuativa. Quindi? Devo chiamarli.
Mi offrono poi un servizio di pick up dall’aereoporto ad un prezzo accettabile. Accetto subito ma condizione incontrovertibile è che io chiami dall’aereoporto non appena arrivato. Ho fatto di tutto, credetemi, per evitare quella telefonata. Il mio inglese arrugginito da anni di spagnolo e francese parlato male, dimenticato nel cassetto dei viaggi possibili non poteva reggere una conversazione telefonica, vale a dire senza il sostegno del labiale. Mi rassegno. Appena atterrato a Vancouver faccio le varie pratiche di ingresso con il mio Working Holiday Visa che mi permettera’ di restare in suolo canadese per 6 mesi e di lavorare ovviamente. Primo timbro sul passaporto e nessuna domanda da parte dell’addetto che chiamerò Primo come si faceva un tempo quando si facevano molti figli. Io essendomi preparato su vari blog  e siti internet sulle pratiche di ingresso e la documentazione che solitamente chiedevano gli ho vuotato sulla scrivania tutti i documenti necessari, assicurazione, dichiarazione della banca, lettera di ingresso speditami dall’ambasciata di Roma, insomma tutto e tutto per evitare una sua domanda alla quale avrei risposto con un silenzio imbarazzato la bocca socchiusa e la testa piegata di tre quarti come a dire si….ma in che senso scusa. Avergli riempito la postazione di scartoffie ha avuto l’effetto contrario. Non è a Primo che dovevo consegnarle. Primo doveva solo visionare il mio passaporto. Avrei dovuto fare ancora un altro passaggio. Primo, guarda avanti ed invita il prossimo. Mi infilo  in un corridoio che mi porta a degli altri sportelli dove c’è gente in fila e c’è una ragazza  in divisa che controlla le scartoffie, quelle che ora ho in mano arruffate in maniera disordinata e che avevo raccolto frettolosamente prima che Primo si innervosisse. La ragazza, l’agente, ha occhi azzurri, capelli biondi carnagione chiara con gote rosse. Ha dei tratti molto dolci camuffati da una divisa scura e da fattezze armate oltre che da un’altezza considerevole, tutti elementi che ne fanno quello che dovrebbe essere un ottimo agente di frontiera: invalicabile.
La mia documentazione è in regola, posso varcare la porta, cercare la mia valigia rossa che vedo galleggiare su un’onda di acciaio ed uscire a fare quello che non avrei mai voluto fare. Telefonare all’ostello. Mi avvicino ad un punto informazioni dove mi attende con lo sguardo una ragazza. Non sa cosa la attende. Mi chiede due volte molto gentilmente che cosa cazzo sto cercando di dirle. Le parole si accavallano, si scontrano e mi sento parlare spagnolo, francese ce n’è per tutti. Per chi avesse visto lo splendido film Il nome della rosa non sara’ difficile rivedermi nella parte di Salvatore, colui che parlava tutte le lingue e nessuna. Alla fine indico il telefono, la ragazza me lo porge ed a questo punto mi aspetterei un premio una banana o qualcosa che attesti il mio superamento della prima prova. Ma ora il primate deve evolversi ed in pochi secondi deve acquisire capacita’ che hanno richiesto milioni di anni. Ora devo parlare. Il telefono squilla. Risponde una voce ed al suo primo cedimento ritmico io inizio una pappardella che mi ero preparato. Vengo interrotto da un biiiiiiiiip acuto ma non sono ai varchi di controllo, è una segreteria. Tutto quello che ho detto l’ho detto prima del biiiiiip. Ricomincio perdendo il filo ma con la certezza che nessuno dall’altra parte abbia necessita’ di capire ogni parola. Scandisco bene il mio nome e pick up. Faranno due più due ed accorreranno a prendermi. Purtroppo non va proprio così quindi dopo aver aspettato mezz’ora sono costretto a richiamare. Torno al punto informazioni e chiedo di fare un’altra telefonata. A questo punto un’altra operatrice mi chiede se ho dei problemi con l’alloggio, o almeno il senso della domanda in linea di massima doveva essere questo. E’ una sensazione strana è come…..è come avere un anno. Come fanno i bambini di un anno a comunicare di essere completamente nella merda, che quel latte di ieri ha fatto a pugni con l’omogeneizzato al salmone selvaggio ed ora il livello di merda è tale da mettere in difficolta’ la tenuta di qualsiasi pannolino. Come fa un bambino di un anno? Piange, che diamine!
Ma io non posso farlo, anche se vi garantisco che avrei una voglia matta di lanciarmi in un urlo liberatorio, straziante. Devo respirare e concentrarmi e soprattutto mettere in fila, una dietro l’altra le parole di inglese che conosco e che mi possono servire. The book e the table in questo caso non servono. The window neppure.
I have a problem. Ecco si, ho un problema. Poi afferro il foglio di carta della prenotazione gentilmente inviatomi da hostelword. La ragazza capisce al volo come una mamma che legge nel pianto del suo bambino. Richiama lei l’ostello ed è fatta stavolta, tra 30 minuti saranno lì. Ora va meglio. Decisamente meglio. Ecco come dev’essere la sensazione di quando da neonato ti cambiavano il pannolino. Grazie mother.

Aspetto, cha altro posso fare. Un puntino nel vuoto immenso che fanno gli aereoporti vuoti. Una signora cinese mi avvicina e pronuncia il mio nome come se stesse per starnutire  e io nelle sue difficolta’ di pronuncia gioisco nel non sentirmi solo.
Il pick up ha inizio con le presentazioni. Sono un cuoco, sono italiano starò qui per 6 mesi. Direi che può bastare al primo incontro, non vorrete mica che vi racconti la mia vita. Sto iniziando da poco a parlare e mi caco ancora nelle mutande, cosa pretendete.
Il mio primo alloggio canadese è al primo piano di Mc Kay street. All’entrata mi accolgono 8 forse 9 paia di scarpe. Il rituale prevede che presenti le mie scarpe alle altre per evitare che il nuovissimo parkett Ikea si rovini. La casa è piena di ragazzi di diverse nazionalita’ ma con una caratteristica che gli accomuna. Parlano tutti inglese. Condivido la stanza con un  ragazzo proveniente dal centro del  Canada che sembra il risultato di esperimenti sugli ormoni alimentari. E’ enorme e con una voce che sembra provenire da lontano, dal centro del Canada. E’ a Vancouver per seguire la sua squadra, non so di cosa, so solo che la sua squadra ha perso e che lui è ubriaco. Si è indubbiamente ubriaco

sabato 3 dicembre 2011

Il Viaggio


 Sono a Londra. 
Di quello che è successo finora ricordo poco.
Ricordo di aver preso due aerei e  di aver dormito, o meglio non ricordo di essere stato sveglio. 
Prima di recarmi ai controlli di sicurezza ho:

  1. acquistato un  deodorante per evitare inimicizie con i miei compagni di volo
  2. acquistato una bottiglia di acqua dopo che un sandwich mi aveva salmistrato la lingua
  3. riposto il deodorante nel sacchettino trasparente
  4. buttato via meta’ dell’acqua in un crescendo di sorsi prima di arrivare al varco controlli
  5. materializzato la tensione in quell’attimo in cui devi togliere la cinta, togliere il giubbotto, togliere l’orologio, il laptop, no, non così, il laptop a parte signori, la macchina fotografica, il cellulare ed il portafoglio.

 Ora sono qui che schiaccio con fretta  tutto nei cestelli e li spingo cercando la sincronizzazione perfetta tra la loro uscita dal tunnel ed il mio essere pronto a riceverli dall’altra parte. E' un movimento perfetto, un colpo di polso e i cestelli scompaiono ed io infilo la porta convinto che sia la solita formalita' e senza perdere mai di vista l'uscita dei cestelli.
La porta però ha un verdetto non scontato e con un biiiiiiip malefico accende un rosso semaforo e con esso l’attenzione degli operatori. A quel punto uno mi controlla il passaporto, l’altro mi mette in croce e appena allargo le braccia il primo mi infila il passaporto nella mano. Mi vedo dall’esterno, in croce con un passaporto in mano. E’ la passione del XXI secolo. L’operatore dei controlli mi plasma cercando il corpo del reato e poi non trovando nulla mi fa cenno di andare. Il biiiiip era superfluo, la macchina si era sbagliata ma ora la mia roba è accatastata nei cestelli a fine corsa del tapis roulant. Il secondo cestello, quello con il laptop è più pesante e sta quasi per accoppiarsi con il primo contenente il giubbotto. Arrivo appena in tempo e come se fossi ad una vendita promozionale prendo su tutto quello che posso stringendolo in un largo abbraccio e portandolo via alla ricerca di un luogo sicuro dove rimettere a posto i pezzi e ripartire alla volta della sala d’aspetto.
L’attesa è surreale. Tutti leggono qualcosa. Io non ho nulla da leggere così mi guardo intorno senza il rischio di incrociare lo sguardo di nessuno. Un impulso elettrico graffia il rame dei contatti e ci mette in comunicazione con una voce anonima che ci annuncia l’apertura del Gate. Non ha finito di parlare che sono gia’ pronto, in prima fila, soddisfatto del mio scatto. Anni ed anni di viaggi Ryanair mi hanno instillato quella sana cattiveria da viaggiatore che rinuncia all’imbarco prioritario e si prepara ad una vera e propria guerra di nervi. Con i voli Ryanair non c’è attesa, c’è preparazione, allenamento. Le regole non scritte sono semplici ma per applicarle a dovere bisogna essere preparati. Conosci il Gate! Che fai, ti siedi? No, ci gingilli di fronte come se il tuo volo fosse un altro. Poi arriva lei, l’operatrice, che sedendosi alla postazione del gate ti avvisa che la guerra ha inizio. Tu la guardi fisso, perché c’è un momento in cui un suo gesto ti dira’ che è ora di scattare. Ma prima di questo momento lei sbriga tutta una serie di incombenze: chiama la madre per chiederle di andare a prendere Giovanni, suo figlio, a scuola in quanto lei proprio non può farcela a tornare da Londra in tempo. Poi invia a suo marito la lista della spesa, chiama l’estetista per confermare l’appuntamento della settimana seguente e poi ad un certo punto arriva una chiamata al telefono del gate. Lei smette di fare quello che stava facendo, si libera l’orecchio destro dai capelli con un colpo secco del capo, un colpo che brilla per eleganza di esecuzione e per un carato appeso al lobo. I capelli come  dervischi ruotano e atterrano sulla schiena, morbidi. A questo punto il labiale è fondamentale. Quando lei ricevera’ l’OK sara’ gia’per meta’ alzata dalla sedia. Questo è il momento. Molti neofiti fanno lo sbaglio a questo punto di imboccare la fila delle partenze prioritarie. Niente di più sbagliato. Da lì non si torna indietro se non a capo chino. Certi sbagli si pagano e non puoi certo pensare di tornare indietro e di infilarti nella fila giusta in virtù di un fantomatico diritto acquisito siglato con frasi del tipo “c’ero prima io” “è da un’ora che aspetto” “ho sbagliato fila, ma non ha visto che ero qui prima di lei?”. Niente di tutto questo ha valore alcuno. Tu hai dato dei deficienti agli altri che aspettavano in una fila chilometrica e ti sei infilata lì, dove guarda caso c’erano due persone. Lo hai fatto con quel ghigno nascosto di chi ha trovato la soluzione e non vuole che gli altri la vedano. Bene ora quel ghigno ha cambiato sponda e distorce il labbro di circa 60-70 persone che come al cinema sono lì a guardarti fisso mentre torni indietro respinta dalla Hostes. A questo punto per te non c’è posto nella fila giusta. Non appena il tuo sguardo si posera’ in una crepa, un anfratto nel quale intromettersi, le file si serreranno e i trolley comporranno una testuggine perfetta.
Prendendo in considerazione questi ed altri piccoli accorgimenti, potrete guardare il panorama dal finestrino, chiedervi perché i finestrini sono così bassi rispetto alla testa di un passeggero seduto, domandarvi infine cos’è quel dolore pungente che avvertite al collo dopo aver passato 1 ora a guadare le nuvole con la testa piegata. Poi l’ultima sensazione è quasi sempre la stessa: stanchezza. Stanchezza perché per il tempo del viaggio qualcuno ha cercato in tutti i modi di vendervi qualcosa.
I voli Ryanair sono un mercato ad alta quota.
Dopo anni e anni di scuola, rincorse, vittorie tutto questo addestramento non mi serve a nulla. Tutti gli altri passeggeri sono composti, non c’è nessuno che abbia voglia di lottare. Certo, è vero….i posti sono assegnati quindi gran  parte del divertimento così si perde, ma volete mettere la soddisfazione di entrare quando l’aereo è quasi vuoto e non bisogna schivare i trolley che si librano sulle teste e  che lontani dalla leggerezza delle ruote di ultima generazione, svelano la pesantezza del maglione pesante, quello di lana fitta fitta, perché Vancouver, come direbbe mia madre, è fredda.
Vinco a tavolino, mi siedo nel mio posto e mi preparo alla traversata.