lunedì 5 dicembre 2011

Bianco metallizzato


La prima sveglia di Vancouver ha una luce tenue e sconosciuta. Non riesco a capire che ore sono. Sposto la tenda di plastica e tela marron e quello che vedo è un paesaggio scomposto in centinaia di goccioline di condensa. Passo una mano sul vetro rompendo il fragile equilibrio  e la prima immagine canadese si materializza nel solco della mano. Sono le sette del mattino. Davanti a me, nel varco d’acqua che si è creato c’è una casetta bassa in legno con il tetto spiovente e poi un’altra e un’altra ancora e poi ricomincia la condensa sul vetro. Il mio coinquilino durante la notte è stato divorato da un orso grizzly che ora riposa comodamente nel suo letto, la qual cosa mi sembrava impossibile viste le dimensioni del mio coinquilino, ma me ne sono fatto una ragione ascoltando i continui rantoli che provenivano dal suo letto. Vado in bagno e appena accendo la luce appaio nello specchio con un tappo ancora piantato nell’orecchio sinistro mentre l’altro devo averlo perso nel letto durante la notte. Ecco spiegato come aveva fatto l’orso a fare capolino nel mio primo sogno canadese. Sono impaziente di uscire  e  come un cowboy vado a slegare le mie scarpe, ci monto su ed esco finalmente a Vancou….
Il primo impatto con l’esterno è quello che si ha quando si rimane per un po’ con lo sportello aperto del congelatore per cercare qualcosa che inevitabilmente è nascosto da decine di offerte speciali accumulatesi nei mesi. Il freddo mi inizia a mordere entrambe le orecchie, mentre le mani si azzuffano come due furetti impazziti l’una con l’altra, si strofinano e ritornano nelle loro tane al caldo. La prima cosa che mi colpisce è che le auto hanno tutte lo stesso colore: bianco metallizzato. Il gelo ha coperto tutto e solo in alcuni punti inizia a cedere il passo al colore naturale delle cose. Apro una piccola mappa del quartiere che avevo stampato in tre copie nel caso in cui il pick up non fosse andato a buon fine. Giro e rigiro il foglio A4 nelle mani cercando di capire la mia posizione su quel pezzo di carta e mentre lo faccio mi fermo sul ciglio della strada in prossimita’ di un incrocio. Ma ecco che sopravviene un’automobile e si ferma a due metri dal marciapiede dal quale io giro la mappa come se fosse un volante. L’attesa dura secondi interminabili: mi accorgo dell’automobile e del suo conducente che mi fissa. Mi copro il volto con la mappa e mi guardo intorno per capire il motivo della sua attesa. Non un semaforo né un’automobile. Oh dio, sta aspettando me. Abbasso la mappa con entrambe le mani con fare imbarazzato e incredulo e attraverso guardando l’auto, lì ferma.  A meta’ del percorso alzo la mano in segno di gratitudine come ero solito fare in Italia dopo che la quindicesima automobile non ti aveva fatto attraversare le strisce, la sedicesima ti aveva visto più audace e aveva accellerato e la diciassettesima si era dovuta fermare ed io l’avevo ringraziata così, alzando la mano.
Devo stare lontano dal ciglio della strada e non assumere l’espressione di uno che vuole, pensa o immagina di attraversare. Mi giro verso una siepe, spalle alla strada e consulto la mia mappa. Intravedo una signora trascinata dal suo labrador e decido di chiederle delle informazioni. Cerco di parlarle mentre come nell’uscita di scena di una ballerina di tip tap cammina di lato inseguendo la sua mano destra attaccata al guinzaglio. Le ripeto la strada dove vorrei arrivare e lei ha un sussulto da capobranco e tira con energia il guinzaglio. Il cane si impenna per la sosta imprevista e piagnucola:
ho dieci alberi da riconquistare stamani, vediamo di muoverci prima che arrivi l’alano, l’irraggiungibile. La signora prova a spiegarmi ma viene  tirata via nuovamente. Capisco solo ,in dissolvenza, the next street. La strada è costellata da piccole abitazioni in legno ad uno, massimo due piani dai colori che variano dal grigio scuro al bianco. Davanti ad ogni casa c’è un prato ed intorno ad ogni prato un recinto basso in legno. C’è qualcosa di familiare in queste case, questa disposizione, questi colori ma non riesco a capire cosa. Possibile che trent’anni di film e cartoni animati americani abbiano instillato in me questa sensazione di gia’ visto, di gia’ vissuto? Ho passeggiato con gli occhi in questa american street senza saperlo, dal divano di casa. Ma ora è diverso, ora l’immagine è ferma e ci sono io che scorrazzo in cerca di un caffè. Americano ovviamente!

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