Alcuni siti interessanti per cercare casa a Vancouver.
giovedì 29 dicembre 2011
martedì 27 dicembre 2011
Behind
Bisogna tornare
un po’ indietro e quale giorno migliore per farlo se non il 25 dicembre 2011
alle ore 18:00 di un pomeriggio immobile a Vancouver. La giornata è passata
attendendo che passasse inchiodato con gli occhi alla finestra mentre la pioggia
continuava ad allagare i parchi ed a confondere i gabbiani.
Behind. Indietro
di un anno, ci aggiungo 9 ore e taglio di corsa La Alameda a Sevilla varcando
le colonne d’Ercole senza neppure bagnarmi un mignolo. Il 25 dicembre ha la sua tipica aria
di giornata casalinga, un po’ soporifera, introversa, familiare. L’abbuffata a
pranzo concilia la lentezza, il sentirsi in diritto di attendere che la
giornata passi, così. In fondo è Natale.
Mi riprometto di smentire totalmente
questa mia descrizione passando il prossimo Natale in spiaggia a Melbourne con il costume rosso.
Sono andato
troppo dietro con la mente, Siviglia è lontana e qui a Vancouver dopo una breve
parentesi selvaggia in downtown che ha fatto pensare a tutti i passanti che
stessero girando un film ed ha fatto pensare ad un orso che se quello era un
film, beh allora era proprio un film di merda, ho trovato casa e lavoro.
Sono riuscito a
trovare una stanza a 15 minuti di skytrain dal centro. Una sistemazione tranquilla a poco
prezzo e, cosa da non sottovalutare, con la presenza di una ragazza italiana che
mi ha facilitato di molto l’impresa. Per quanto riguarda il lavoro è stato più
complicato di quanto pensassi, ma non perché non ci siano occasioni, solo
perché ho sicuramente peccato di superficialita’. Ebbene si, lo ammetto. Sono
partito dall'Italia sulle ali dell’entusiamo, e va bene. Sono partito convinto che certi
colpi di testa facciano bene allo spirito, e siamo d’accordo. Sono partito
convinto che l’inglese l’avrei poi “praticato” sul luogo, che per un lavoro in
una cucina italiana potesse bastare la lingua madre. Sbagliato. Nella mia
visione avevo omesso tutta una serie di personaggi che mi si sono
materializzati il primo giorno di stage.
Oh no, non stage
in quel senso. A quel punto restavo in Italia. Lo stage qui è inteso come il
giorno di prova. Il giorno, uno.
Una delle mie
prime interview è andata malissimo.
Inizio molto
tranquillamente a ripetere il mio resume inanellando competenze, abilita’,
qualita’ professionali e descrivendo tutto con molta continuita’,vecchio
trucco per sgomberare il campo da eventuali domande.
Lo chef sembra
convinto dalle mie argomentazioni e mette più parole una affianco all’altra
costruendo una frase dannatamente inglese ed al centro ci mette una parolina:
stage. Nota il mio cambiamento di espressione ed allora quasi si giustifica
dicendomi che dovevo pur fare un periodo di stage.
Mi alzo con fare
deciso. Ringrazio. Porgo la mano. Saluto e dopo un giorno mi rendo conto di
aver fatto una delle figure di merda più clamorose mollando lo chef lì su due
piedi mentre mi offriva una possibilita’. Cerco di rimediare facendo
immediatamente altri colloqui. Vanno bene. Si arriva a fare lo stage e vengo a
conoscenza di quei personaggi sconosciuti di cui parlavo poco prima.
In una cucina
italiana di Vancouver a parlare italiano non c’è quasi nessuno.
Partiamo dai
camerieri. Anche se parlano italiano non lo faranno certo per amarcord o per
venirti incontro nel bel mezzo del servizio.
I lavapiatti: non
parlano italiano neppure in Italia figuriamoci qui.
Ma veniamo ai cuochi. In una brigata di
cucina non esiste la gentilezza, figuriamoci la disponibilita’ e la
comprensione. E’ una caserma la cucina e tu sei l’ultimo arrivato e l’unico mio
vantaggio in questo caso è non capire tutti i loro insulti mentre mi chiedono qualcosa che
non capisco, non eseguo, il piatto non esce, il cliente si lamenta e io ho
finito il mio primo giorno di stage che sara’ pure uno ma se continuo così
sommandoli tutti torno a casa dopo aver fatto un altro stage di 3 mesi ma in 90
ristoranti diversi.
Mentre guardo il
caos della cucina che si materializza nell’ordine del piatto decorato penso a
quanto sono stato avventato a non considerare il fattore linguistico come un
fattore principale. Alla terza settimana riesco comunque a trovare un posto di
lavoro. Il ristorante è splendido, la cucina curata ed elegante e lo chef mi
chiede di parlare la lingua internazionale dell'impegno e della passione. Ma poi a parte
queste mie stronzate che scrivo mi invita a imparare
al più presto l’inglese, perché non si tratta solo di una lingua ma di stare al
mondo…..
Cerco di organizzarmi
per frequentare un corso di inglese ma i costi sono proibitivi e comunque
tenuti durante il mio orario di lavoro. Trovo una scuola dove cercano
volontari; bisognerebbe fare la cavia per dei ragazzi che studiano e pagano per
diventare insegnanti di Inglese. Ottimo.
Niente da fare. le lezioni si tengono durante il mio orario di lavoro. Ma che cazzo di orario di lavoro hai, direte
voi.
Semplicemente proibitivo per un corso di inglese.
Decido allora di
fare da solo e di iniziare dai termini tecnici utilizzati in cucina, un po’ di
bestemmie ed insulti per comprenderli e poter rispondere e poi un po’ di
grammatica. Ammetto che non è molto ortodosso come corso di inglese ma ho
capito dall’esperienza dei primi giorni che non conveniva fare troppo
affidamento sui canonici corsi di lingua. Durante un corso universitario che
avevo seguito in Italia mi era stato spiegato infatti che rispondere what quando non si è capito qualcosa era
tremendamente sgarbato, ma uno dei primi cuochi che ho incontrato sulla mia
strada non deve aver fatto lo stesso corso visto che mi ha abbaiato un what rabbioso, con la bocca distorta ed
un’espressione disgustata. Io aspettavo che sputasse dopo aver masticato ancora
una volta il suo boccone di fottuto tabacco ma invece si era voltato blaterando
qualcosa che non avevo capito ma non mi sono
certo sognato per questo motivo di chiedergli I beg your pardon sir perché sapevo gia’ che sarebbe finita male.
Sto studiando e
mi piace. Riuscire a parlare con la gente, farsi capire. E’ piacevole. Sto
rivivendo le fasi della vita. Inizio a parlare con delle frasi che iniziano e
finiscono e gli altri rispondono quindi, hanno capito. E’ piacevole, cazzo se è
piacevole. Non me ne importa nulla di quello di cui sto parlando e della
risposta che ho ricevuto. Ho iniziato un discorso in inglese, ma ve ne rendete
conto. Si, l’ho solo iniziato, ma da qualche parte bisognera’ pur cominciare.
Per il boxing
day, che è il corrispondente del nostro Santo Stefano, qui ne approfittano per fare sconti molto vantaggiosi e quindi ne ho approfittato per acquistare il mio primo libro in
Inglese. Il libro è l’autobiografia di Steve Jobs di
Walter Isaacson.
Sono alle prime pagine ma mi ci trovo bene così ho deciso di fermarmici per un pò.
martedì 13 dicembre 2011
Metti un giorno in centro a Vancouver
INTO THE WILD:
Bear caught in downtown Vancouver set free
domenica 11 dicembre 2011
NO DURIAN
Lo so che potra’
sembrare una follia ma uno dei primi luoghi dove solitamente mi reco quando
sono all’estero sono i supermercati. E’ più forte di me, gia’ dalla barriera
casse inizio a notare piccoli ma importanti particolari.
In Italia questa
è la zona storicamente occupata dalle pile elettriche e dai rasoi poi con gli anni
prepotentemente soppiantati da chevingum e dolcetti vari con l’immancabile
ovetto kinder in primo piano perché loro lo sanno che il bambino sferrera’
l’ultimo suo attacco in quel punto preciso. A due metri dall’uscita sono
consapevoli che il genitore non ne può più di dire
questo no!
No, amore
di mamma, lo abbiamo a casa
da qui ci ripassiamo,
lo prendiamo dopo
e allora cede, stremato all’ultimo ovetto. Le
chevingum sono invece il tranello per l’adulto e per i suoi spiccioli. Il famoso
detto fatto 30 facciamo 31 si applica perfettamente a questo tipo di prodotto.
Il pacchetto formato famiglia di chevingum costera’ pochi spicci in confronto a
quello acquistato fino a quel momento. Fatto trenta…..
Sono quasi in
prossimita’ delle casse e da quello che riesco a veder dall’esterno del
supermercato ci sono…le chevingum, piccoli bonbon e ..no da qui non riesco a
vedere altro. Entro. La disposizione è sempre quella, è internazionale. Al
primo posto televisori piccoli elettrodomestici, etc etc. Ma c’è il corridoio
principale situato di fronte all’entrata del ipermercato che è l’altare
sacrificale dell’offerta speciale. Quel luogo è l’alcova dei desideri del
consumatore. L’ultima volta che sono stato in un supermercato Italiano sono
stato accolto da un totem di pasta in
offerta, ci andassi ora ci sarebbero i panettoni e così via. Anche qui trovo
una montagna ad attendermi ma ha qualcosa che non riesco a comprendere. E’ una
montagna di sacchi bianchi, è come se ci si aspettasse un’ inondazione e le autorita’ avessero
approntato tutte le misure per arginarla. Mi avvicino e lo sguardo si alza ad
ogni passo. La montagna è enorme ed ha evidentemente il solo scopo di farsi
vedere in quanto sarebbe impossibile tirare via uno di quei sacchi senza
causare un genocidio. Ma che razza di prodotto è? E’ contro ogni regola del
marketing vendere un prodotto in una confezione che non abbia nessun tipo di
iscrizione. Devono contenere in se, quei sacchi, delle informazioni che solo io
non riesco a cogliere. Mi apposto fingendo interesse in uno scaffale di fianco
alla montagna bianca. Vedo una coppia di asiatici che la guardano con ammirazione e poi la
oltrepassano veloci e caricano sul carrello uno dei sacchi riposti su di uno
scaffale specifico. Un cartello bianco scritto a mano con pennarello nero dice
semplicemente Rice ed il prezzo.
Lo dicevo che
quella montagna aveva parole che solo io non comprendevo.
Vancouver è una
citta’ con gli occhi a mandorla, è una citta’ nata dal desiderio di una vita
migliore, di un riscatto o a volte solo di una fuga. Ha tanti volti, uno per
ogni desiderio realizzato o in realizzazione.
Osservo i clienti
ma soprattutto i contenitori dei desideri: i carrelli ed i cestelli.
I carrelli sono
enormi, diversi da quelli a cui siamo abituati, pronti a contenere più
desideri. I cestelli a mano sono molto particolari, nascondono un contrappasso
per chi ha deciso di comprare poco. Non sono infatti comodi, con le ruotine
come quelli italiani ma hanno al posto dei manici due corde che ti segano le
mani nel caso ti venisse la malaugurata idea di acquistare molta roba. E’ una
scomodita’ che paghi per non aver scelto il carrello grande, per non aver
scelto di comprare, forse.
Il mio obiettivo
ovviamente è il reparto food, è qui che puoi conoscere la gente di una citta’
prima che dai suoi monumenti, dalla sua storia. Qui risiede il dna di una
popolazione. IL CIBO.
Passo tra gli
scaffali veloce in direzione del reparto pescheria…..
![]() |
| Salmone Rosso Sockeye |
Niente banco con
il ghiaccio ma acquari. Trote vive, granchi enormi e tilapia vive anche queste.
Le tilapie sono un po’ come il riso hanno seguito i desideri dei loro
consumatori qui in terra canadese. Un intero reparto frigorifero è destinato al
salmone, e qui mi ci soffermo con attenzione, cerco lui, quello che non ho mai
visto fresco e da vicino, il sockeye salmon. Il salmone selvaggio. Non ha
niente a che vedere con il nostro salmone. Il sockeye ha la carne rossa e ,
dovrebbe, essere selvaggio. Dico dovrebbe perché poi alla fine ci hanno ficcato
anche lui in una vasca ad ingrassare. L’avete visto sicuramente in qualche
documentario in TV, è quello che ogni anno con la sua sensibilita’ manifestata
nella voglia di tornare nel luogo dov’è nato per deporre le uova riesce a salvare
l’orso da morte certa sfamandolo in abbondanza. C’è un’istantanea negli occhi
di tutti quelli che hanno visto uno di questi documentari: l’orso fermo in
acqua ed il salmone che gli salta in bocca. Il nome di questo salmone è una
storpiatura che gli inglesi hanno fatto del nome che i nativi davano al pesce
ovvero suk-kegh che letteralmente significa pesce rosso. Per i nativi che
vivevano queste zone prima che arrivassero i “civilizzatori” il salmone era un
pesce sacro e rispettato quasi quanto lo
è dagli orsi.
![]() |
| Cherimoya |
Ultimo reparto
prima di uscire non può che essere l’ortofrutta, e qui faccio compere. Mi
preparo, cerco i guanti, non esistono. Ok, mi armo di busta e scarto i
mandarini biologici made in China vedendoci in queste due connotati un qualcosa
di stridente, cerco prodotti locali e mi imbatto in un cesto di cherimoya
provenienti dal Messico. Le cherimoya hanno la forma ovale e una superficie che
sembra essere stata tagliuzzata con un coltello molto affilato in quanto presenta
molte sfaccettature, è come…è quasi come una pigna chiusa . Mi era capitato di
assaggiarla in Spagna ed il sapore che richiama vagamente una pera matura non
mi aveva molto convinto.
Comincio a
riempire la busta con dei gai lon ed un’altra con Bok Choy entrambi coltivati in Canada. Il primo è il cosiddetto broccolo
cinese il secondo richiama la forma della bieta ed è sicuramente della stessa
famiglia ma di più piccole dimensioni. E’ come se della bietola fosse stato
preso solo il cuore. Entrambi questi prodotti sono, manco a dirlo, molto utilizzati dalla cucina cinese.
Il reparto con le mele è
sterminato e tutte hanno una caratteristica a mio modo di vedere sconfortante:
le mele sono lucidissime, riflettono l luci del supermercato come tante pietre
preziose. Uguali e lucide, lucide e uguali non riesco a prenderle. Ho paura di
finire vittima di un incantesimo, ho paura di specchiar mici dentro.
Ma mentre sto per abbandonare definitivamente il reparto vedo una cosa,
un’arma o…ma cos’è. Leggo il cartello che ha come titolo il nome del frutto
ovvero DURIAN e come sottotitolo la metodogia di conservazione, frozen.
![]() |
| Cartello affisso a Singapore |
Un’ultima cosa. Non posso uscire senza sciroppo d’acero. Lo trovo, lo
valuto in base agli ingredienti, scarto quello che contiene caramello e mi
preparo ad uscire. Vagando per le corsie con il cestello che mi sega le mani
per colpa della confezione da litro di sciroppo d’acero vedo che tutto è
venduto in confezioni enormi, più grandi rispetto alle nostre confezioni
risparmio. Sembra ci siano prodotti per uomini e per una razza nuova, più
grande, con più necessita’, con più desideri. Una razza nuova con carrelli
giganti spinti da uomini piccoli.
Corro a casa a provare i gai lon.
Ah dimenticavo, tra un rigo e l’altro ho trovato casa.
Ubicazione:
Vancouver, Columbia Britannica, Canada
martedì 6 dicembre 2011
Perché una mela?
E’ una domanda
che mi sono posto per anni e mi ha sempre incuriosito il perché di quel frutto
al posto di un altro.
Eva si trovava
con quell’altro che non aveva tutte le costole a posto in un giardino
spettacolare dove c’era tutto, ma davvero di tutto. L’unico frutto che non
potevano toccare era la mela. Ma perché?
Ricordo di aver
letto da qualche parte che se provi a tagliare una mela in senso verticale
potrai vedere al suo centro una netta somiglianza con il sesso femminile.
Ma dai, non può
certo essere questo il motivo e poi non penso che abbiano fatto la prova su
tutti i frutti prima di decidere. Non ce li vedo lì seduti a tagliare frutti e
a chiedersi se vedevano qualcosa.
Un altro taglio
possibile, della mela intendo, è quello orizzontale. In questo caso otterrete,
guardando sempre nel centro, una stella a cinque punte ovverosia il simbolo del
diavolo.
Se neppure questa ipotesi vi convince tanto allora provate ad assaggiarla una mela:
turgida, lucida, dolce e acidula. E’ la tentazione fatta frutta.
Mah. Vuoi mettere le fragole le ciliegie….
Se neppure questa ipotesi vi convince tanto allora provate ad assaggiarla una mela:
turgida, lucida, dolce e acidula. E’ la tentazione fatta frutta.
Mah. Vuoi mettere le fragole le ciliegie….
Forse allora la
storia più convincente è quella dei Druidi, si avete capito bene, quelli di
Avalon, l’isola delle mele e del cidro. Questi mangiamele non andavano
particolarmente a genio alle gerarchie cattoliche del tempo e allora….
Allora così
avrebbe senso. Il frutto maledetto che ha condotto sulla via del peccato un
intero popolo. Quale modo migliore per dire che la loro fede è cattiva se non
nominare il loro frutto prediletto il frutto del peccato.
Come è andata a
finire non ve lo dico neppure, fatto sta però che qualche rivincita i
mangiamele se la sono presa, se di rivincita si può parlare; ogni anno, molti
di noi rivivono la sbornia di Anthor (da cui deriva forse la radice del nome di un
famoso farmaco contro i riflussi esofagei.) mentre addobbava ed adorava, come si
usava fare, un albero di abete con grossi pomi rossi. Vi ricorda qualcosa? Alle
stelle filanti non voglio dare spiegazione per non scadere nello splatter, ma se aveste visto che razza di sbornia aveva preso Anthor vi sarebbe abbastanza facile capire di cosa stiamo parlando.
Ma torniamo alla
nostra primadonna. Eva coglie la mela e si accorge di non aver messo niente
addosso prima di uscire quella mattina e da qui in poi la storia la conoscete.
Eva è l’inizio,
nel bene e nel male, che ci si creda o no è il simbolo dell’inizio e io non avrei mai
pensato ad un inizio del genere. Vi spiego meglio. Sono alla ricerca di un
caffè e trovo uno Starbucks. Dalla porta a vetri vedo una lunga fila di persone
che attendono di ordinare in maniera molto composta. Il locale ha due entrate,
o meglio, un’entrata ed un’uscita
collegate da una sorta di budello in cui ci sono i clienti in fila. Non
riesco a capire però il perché siamo in fila solo da un lato, mi sporgo per vedere
se si è rovesciato del caffè per terra lungo il lato libero. Niente, tutto
perfettamente pulito. Una, unica ed ordinata. Rientro con la testa nella sagoma
della fila ed attendo da un momento all’altro quello lì che deve chiedere solo
un’informazione. C’è sempre dove c’è una fila. Se voi provate a creare una fila
nel vuoto di una piazza, una fila che non ha scopo alcuno, ebbene arrivera’
quello dell’informazione, quello che ci vogliono solo due secondi. E’ quasi il
mio turno. Guardo il menù gigante affisso sopra al bancone e mi preparo
ripetendo la parte e schiarendomi la voce. Un senso di piacere mi pervade
quando vedo scritto, espresso, cappuccino, Caramel macchiato. Ma allora posso dirlo in italiano anticipando
solo il nome del prodotto con la quantita’ desiderata e un please finale per non passare da cafone. Ma non basta. Bisogna
specificare la taglia che è scritta piccola, troppo piccola e mentre arriva il
mio turno aguzzo lo sguardo e sto quasi per scavalcare il bancone per leggere
cosa cazzo c’è scritto…..
E' il mio turno.
Sara’ un effetto psicologico ma ogni qual
volta mi trovo a dover parlare inglese in queste situazioni si crea un silenzio
irreale intorno a me.
Vi ricordate a scuola? Tu sei alla cattedra ed
il giorno prima eri convinto che era impossibile che chiamasse proprio te. La
professoressa attende una tua risposta ma in cuor suo sa gia’ che non ci sara’,
così si limita solo ad aumentare l’agonia giocherellando con le chiavi della
sua macchina. La maestra si perde nel tintinnio delle chiavi, la classe se ne
accorge ed inizia a rumoreggiare sempre più forte e tu ti senti come il
condannato che guarda la folla scomposta sotto al patibolo. La professoressa lascia
una mano sola a giocare con le chiavi e
alza l’altra sopra la sua testa fino a farla cadere rumorosamente sulla
cattedra. E’ il rullo di tamburi prima della ghigliottina. La piazza tace, in
attesa.
E’ la stessa
sensazione che avverto ora. Esordisco con un Yes assolutamente non richiesto. La mia ordinazione è one Caramello Macchiato. Dall’altra
parte il tipo mi dice solo sorry prima
di avvicinarsi con la testa. Non ha capito! Ma come non ha capito? Caramello è
italiano ed io sono Italiano, macchiato è italiano ed io sono italiano. Come ho
potuto sbagliare anche questa volta? Lo ripeto e allora lui lo ripete dopo di
me, con il suo accento e solo così lo capisce. Il suono è effettivamente
diverso, mancano tutte le doppie, caramello ha un suono sinuoso,
dolciastro e appiccicoso mentre macchiato ha perso tutta la cattiveria della doppia c.
E’ finita?
Macchè, mi chiede la taglia. Non la so, la taglia non la so, io non riesco a
leggere, guardi faccia the first one from
the left in the menù. Pago e tiro un sospiro di sollievo. Lui prende un
pennarello e si prepara a scrivere dopo avermi chiesto qualcosa. Capisco solo your name, please?
Ho un flash,
quello che si potrebbe definire un colpo di genio. Una vocina nell’orecchio
sinistro mi consiglia di rispondere senza tentennamenti: John, my name is John.
John lo capira’ di sicuro, c’è in tutti i films americani uno che si chiama
john. Non colgo l’attimo e dico il mio vero nome. Lui mi chiede immediatamente
lo spelling ed io impreparato inizio lo spelling come se fossi al bar dello
sport, inizio lo spelling in italiano. Il mio nome inizia con la i e la lui
scrive e. Me ne accorgo e corro ai ripari v, ei but you have to change the
first one. La fila rumoreggia, silenziosamente, con piccoli colpi di tosse che
mi colpiscono alle spalle. Niente da fare, lui ha scritto le tre lettere che
gli ho dettato. Niente di più.. Il risultato è EVA, scritto nero e grosso su di
una fascettina di carta che loro mettono attorno al tuo bicchiere di carta per
bruciarti solo quando sarai fuori dal locale e non lì davanti al bancone. Mi dice di
aspettare che a momenti sara’ pronto.
Non sono solo,
sono in molti ad aspettare. Li guardo con complicita’ poi li riguardo con
terrore prevedendo cosa sta per succedere. Se siamo in tanti e mi hanno chiesto
il nome……..oh no mi stanno per chiamare!
La vocina
ricompare e mi invita ad andarmene subito a salvarmi finchè sono in tempo.
Tentenno e la vocina mi manda a quel paese mentre vedo la cameriera alzare un
bicchierone con una schiuma bianca in cima. Urla quel nome come se le avessero
chiuso una mano nel cassetto. EVA, CARAMELLO MACCHIATO for EVAAA. Mi guardo intorno per
capire quanta gente c’è in fila. Tanta, e tutti muoiono dalla voglia di
conoscere Eva. Al terzo richiamo il cassiere che mi aveva servito mi guarda ed
io rispondo al suo sguardo socchiudendo gli occhi e appuntendo le labbra. Capisce
che se prova ad additarmi gli salto addosso.
Mi stacco dal
gruppo con passo fiero, con l’espressione di che era sovrappensiero, sradico il
mio beverone dalla mano dalla cameriera che stava per tornare ad urlare, ed
esco.
Lo sorseggio
piano, avrei voglia di scoppiare a ridere.
Mi siedo ed una domanda mi frulla costantemente nella testa: cosa sarebbe successo se Eva avesse preso un Caramello Macchiato al posto di quella dannatissima mela?
Mi siedo ed una domanda mi frulla costantemente nella testa: cosa sarebbe successo se Eva avesse preso un Caramello Macchiato al posto di quella dannatissima mela?
Ubicazione:
Vancouver, Columbia Britannica, Canada
lunedì 5 dicembre 2011
Bianco metallizzato
La prima
sveglia di Vancouver ha una luce tenue e sconosciuta. Non riesco a capire che
ore sono. Sposto la tenda di plastica e tela marron e quello che vedo è un paesaggio scomposto in centinaia di goccioline di condensa. Passo una mano sul vetro rompendo il fragile
equilibrio e la prima immagine canadese
si materializza nel solco della mano. Sono le sette del mattino. Davanti a me,
nel varco d’acqua che si è creato c’è una casetta bassa in legno con il tetto spiovente e poi un’altra e un’altra ancora e poi ricomincia la condensa sul
vetro. Il mio coinquilino durante la notte è stato divorato da un orso grizzly
che ora riposa comodamente nel suo letto, la qual cosa mi sembrava impossibile
viste le dimensioni del mio coinquilino, ma me ne sono fatto una ragione
ascoltando i continui rantoli che provenivano dal suo letto. Vado in bagno e
appena accendo la luce appaio nello specchio con un tappo ancora piantato
nell’orecchio sinistro mentre l’altro devo averlo perso nel letto durante la
notte. Ecco spiegato come aveva fatto l’orso a fare capolino nel mio primo
sogno canadese. Sono impaziente di uscire e come
un cowboy vado a slegare le mie scarpe, ci monto su ed esco finalmente a
Vancou….
Il primo
impatto con l’esterno è quello che si ha quando si rimane per un po’ con lo
sportello aperto del congelatore per cercare qualcosa che inevitabilmente è
nascosto da decine di offerte speciali accumulatesi nei mesi. Il freddo mi
inizia a mordere entrambe le orecchie, mentre le mani si azzuffano come due
furetti impazziti l’una con l’altra, si strofinano e ritornano nelle loro tane
al caldo. La prima cosa che mi colpisce è che le auto hanno tutte lo stesso
colore: bianco metallizzato. Il gelo ha coperto tutto e solo in alcuni punti
inizia a cedere il passo al colore naturale delle cose. Apro una piccola mappa
del quartiere che avevo stampato in tre copie nel caso in cui il pick up non fosse
andato a buon fine. Giro e rigiro il foglio A4 nelle mani cercando di capire la
mia posizione su quel pezzo di carta e mentre lo faccio mi fermo sul ciglio
della strada in prossimita’ di un incrocio. Ma ecco che sopravviene
un’automobile e si ferma a due metri dal marciapiede dal quale io giro la mappa
come se fosse un volante. L’attesa dura secondi interminabili: mi accorgo dell’automobile
e del suo conducente che mi fissa. Mi copro il volto con la mappa e mi guardo
intorno per capire il motivo della sua attesa. Non un semaforo né
un’automobile. Oh dio, sta aspettando me. Abbasso la mappa con entrambe le mani
con fare imbarazzato e incredulo e attraverso guardando l’auto, lì ferma. A
meta’ del percorso alzo la mano in segno di gratitudine come ero solito fare in
Italia dopo che la quindicesima automobile non ti aveva fatto attraversare le
strisce, la sedicesima ti aveva visto più audace e aveva accellerato e la
diciassettesima si era dovuta fermare ed io l’avevo ringraziata così, alzando
la mano.
Devo stare
lontano dal ciglio della strada e non assumere l’espressione di uno che vuole,
pensa o immagina di attraversare. Mi giro verso una siepe, spalle alla
strada e consulto la mia mappa. Intravedo una signora trascinata dal suo
labrador e decido di chiederle delle informazioni. Cerco di parlarle mentre
come nell’uscita di scena di una ballerina di tip tap cammina di lato
inseguendo la sua mano destra attaccata al guinzaglio. Le ripeto la strada dove
vorrei arrivare e lei ha un sussulto da capobranco e tira con energia il
guinzaglio. Il cane si impenna per la sosta imprevista e piagnucola:
ho dieci alberi
da riconquistare stamani, vediamo di muoverci prima che arrivi l’alano,
l’irraggiungibile. La signora prova a spiegarmi ma viene tirata via nuovamente. Capisco solo ,in
dissolvenza, the next street. La strada è costellata da piccole abitazioni in
legno ad uno, massimo due piani dai colori che variano dal grigio scuro al
bianco. Davanti ad ogni casa c’è un prato ed intorno ad ogni prato un recinto
basso in legno. C’è qualcosa di familiare in queste case, questa disposizione,
questi colori ma non riesco a capire cosa. Possibile che trent’anni di film e
cartoni animati americani abbiano instillato in me questa sensazione di gia’
visto, di gia’ vissuto? Ho passeggiato con gli occhi in questa american street
senza saperlo, dal divano di casa. Ma ora è diverso, ora l’immagine è ferma e
ci sono io che scorrazzo in cerca di un caffè. Americano ovviamente!
Ubicazione:
Vancouver, Columbia Britannica, Canada
domenica 4 dicembre 2011
....di dolore ostello
Ho prenotato un
ostello per i primi giorni. Ho fatto tutto come un vero professionista del
viaggio. Ho prenotato su hostelword e subito è arrivata la mia ricevuta con
l’indicazione dei giorni di soggiorno. A stretto giro mi è arrivata un’altra
mail della proprieta’ dell’ostello che mi chiedeva info riguardo il mio volo e
soprattutto di chiamarli telefonicamente appena arrivato a Vancouver in modo da rendersi reperibili .
Rendersi reperibili? Ho
tradotto male? Può essere. Il traduttore di Google può aver capito tradotto male. Per
essere certo chiedo alla mia compagna che l’inglese lo mastica e non lo sputa
come invece faccio io.
Confermato. Farsi
trovare, quindi non sono sempre presenti sul posto, non c‘è una reception ma
allora cosa c’è e soprattutto come faccio se non riesco a contattarli. Sono in grado di
arrivare all’ostello ma poi loro come fanno a sapere che son lì.
L’ansia è seduta al mio fianco e mi detta una mail in un inglese perfetto in cui chiedo chiarimenti. La risposta arriva subito a mezzo Iphone chiarendomi che avendo loro in carico diverse guesthouse non possono essere in tutte contemporaneamente e soprattutto in maniera continuativa. Quindi? Devo chiamarli.
L’ansia è seduta al mio fianco e mi detta una mail in un inglese perfetto in cui chiedo chiarimenti. La risposta arriva subito a mezzo Iphone chiarendomi che avendo loro in carico diverse guesthouse non possono essere in tutte contemporaneamente e soprattutto in maniera continuativa. Quindi? Devo chiamarli.
Mi offrono poi un
servizio di pick up dall’aereoporto ad un prezzo accettabile. Accetto subito ma
condizione incontrovertibile è che io chiami dall’aereoporto non appena
arrivato. Ho fatto di tutto, credetemi, per evitare quella telefonata. Il mio
inglese arrugginito da anni di spagnolo e francese parlato male, dimenticato
nel cassetto dei viaggi possibili non poteva reggere una conversazione
telefonica, vale a dire senza il sostegno del labiale. Mi rassegno. Appena
atterrato a Vancouver faccio le varie pratiche di ingresso con
il mio Working Holiday Visa che mi permettera’ di restare in suolo canadese per
6 mesi e di lavorare ovviamente. Primo timbro sul passaporto e nessuna domanda
da parte dell’addetto che chiamerò Primo come si faceva un tempo quando si
facevano molti figli. Io essendomi preparato su vari blog e siti internet sulle pratiche di ingresso e
la documentazione che solitamente chiedevano gli ho vuotato sulla scrivania
tutti i documenti necessari, assicurazione, dichiarazione della banca, lettera
di ingresso speditami dall’ambasciata di Roma, insomma tutto e tutto per
evitare una sua domanda alla quale avrei risposto con un silenzio imbarazzato
la bocca socchiusa e la testa piegata di tre quarti come a dire si….ma in che
senso scusa. Avergli riempito la postazione di scartoffie ha avuto l’effetto
contrario. Non è a Primo che dovevo consegnarle. Primo doveva solo visionare il
mio passaporto. Avrei dovuto fare ancora un altro passaggio. Primo, guarda
avanti ed invita il prossimo. Mi infilo in un corridoio che mi porta a
degli altri sportelli dove c’è gente in fila e c’è una ragazza in divisa che controlla le scartoffie, quelle
che ora ho in mano arruffate in maniera disordinata e che avevo raccolto
frettolosamente prima che Primo si innervosisse. La ragazza, l’agente, ha occhi
azzurri, capelli biondi carnagione chiara con gote rosse. Ha dei tratti molto
dolci camuffati da una divisa scura e da fattezze armate oltre che da un’altezza
considerevole, tutti elementi che ne fanno quello che dovrebbe essere un ottimo
agente di frontiera: invalicabile.
La mia
documentazione è in regola, posso varcare la porta, cercare la mia valigia rossa
che vedo galleggiare su un’onda di acciaio ed uscire a fare quello che non
avrei mai voluto fare. Telefonare all’ostello. Mi avvicino ad un punto
informazioni dove mi attende con lo sguardo una ragazza. Non sa cosa la
attende. Mi chiede due volte molto gentilmente che cosa cazzo sto cercando di
dirle. Le parole si accavallano, si scontrano e mi sento parlare spagnolo,
francese ce n’è per tutti. Per chi avesse visto lo splendido film Il nome della
rosa non sara’ difficile rivedermi nella parte di Salvatore, colui che parlava
tutte le lingue e nessuna. Alla fine indico il telefono, la ragazza me lo porge
ed a questo punto mi aspetterei un premio una banana o qualcosa che attesti il
mio superamento della prima prova. Ma ora il primate deve evolversi ed in pochi
secondi deve acquisire capacita’ che hanno richiesto milioni di anni. Ora devo
parlare. Il telefono squilla. Risponde una voce ed al suo primo cedimento
ritmico io inizio una pappardella che mi ero preparato. Vengo interrotto da un
biiiiiiiiip acuto ma non sono ai varchi di controllo, è una segreteria. Tutto
quello che ho detto l’ho detto prima del biiiiiip. Ricomincio perdendo il filo
ma con la certezza che nessuno dall’altra parte abbia necessita’ di capire ogni
parola. Scandisco bene il mio nome e pick up. Faranno due più due ed
accorreranno a prendermi. Purtroppo non va proprio così quindi dopo aver
aspettato mezz’ora sono costretto a richiamare. Torno al punto informazioni e
chiedo di fare un’altra telefonata. A questo punto un’altra operatrice mi
chiede se ho dei problemi con l’alloggio, o almeno il senso della domanda in
linea di massima doveva essere questo. E’ una sensazione strana è come…..è come avere un
anno. Come fanno i bambini di un anno a comunicare di essere completamente
nella merda, che quel latte di ieri ha fatto a pugni con l’omogeneizzato al
salmone selvaggio ed ora il livello di merda è tale da mettere in difficolta’
la tenuta di qualsiasi pannolino. Come fa un bambino di un anno? Piange, che
diamine!
Ma io non posso
farlo, anche se vi garantisco che avrei una voglia matta di lanciarmi in un
urlo liberatorio, straziante. Devo respirare e concentrarmi e soprattutto
mettere in fila, una dietro l’altra le parole di inglese che conosco e che mi
possono servire. The book e the table in questo caso non servono. The window
neppure.
I have a problem.
Ecco si, ho un problema. Poi afferro il foglio di carta della prenotazione
gentilmente inviatomi da hostelword. La ragazza capisce al volo come una mamma
che legge nel pianto del suo bambino. Richiama lei l’ostello ed è fatta stavolta,
tra 30 minuti saranno lì. Ora va meglio. Decisamente meglio. Ecco come
dev’essere la sensazione di quando da neonato ti cambiavano il pannolino. Grazie
mother.
Aspetto, cha
altro posso fare. Un puntino nel vuoto immenso che fanno gli aereoporti vuoti.
Una signora cinese mi avvicina e pronuncia il mio nome come se stesse per
starnutire e io nelle sue difficolta’ di
pronuncia gioisco nel non sentirmi solo.
Il pick up ha
inizio con le presentazioni. Sono un cuoco, sono italiano starò qui per 6 mesi.
Direi che può bastare al primo incontro, non vorrete mica che vi racconti la
mia vita. Sto iniziando da poco a parlare e mi caco ancora nelle mutande, cosa
pretendete.
Il mio primo
alloggio canadese è al primo piano di Mc Kay street. All’entrata mi accolgono 8
forse 9 paia di scarpe. Il rituale prevede che presenti le mie scarpe alle
altre per evitare che il nuovissimo parkett Ikea si rovini. La casa è piena di
ragazzi di diverse nazionalita’ ma con una caratteristica che gli accomuna.
Parlano tutti inglese. Condivido la stanza con un ragazzo proveniente dal centro del Canada che sembra il risultato di
esperimenti sugli ormoni alimentari. E’ enorme e con una voce che sembra
provenire da lontano, dal centro del Canada. E’ a Vancouver per seguire la sua
squadra, non so di cosa, so solo che la sua squadra ha perso e che lui è
ubriaco. Si è indubbiamente ubriaco
Ubicazione:
Vancouver, Columbia Britannica, Canada
sabato 3 dicembre 2011
Il Viaggio
Sono a Londra.
Di quello che è successo finora ricordo poco.
Ricordo di aver preso due aerei e di aver dormito, o meglio non ricordo di essere stato sveglio.
Prima di recarmi ai controlli di sicurezza ho:
Di quello che è successo finora ricordo poco.
Ricordo di aver preso due aerei e di aver dormito, o meglio non ricordo di essere stato sveglio.
Prima di recarmi ai controlli di sicurezza ho:
- acquistato un deodorante per evitare inimicizie con i miei compagni di volo
- acquistato una bottiglia di acqua dopo che un sandwich mi aveva salmistrato la lingua
- riposto il deodorante nel sacchettino trasparente
- buttato via meta’ dell’acqua in un crescendo di sorsi prima di arrivare al varco controlli
- materializzato la tensione in quell’attimo in cui devi togliere la cinta, togliere il giubbotto, togliere l’orologio, il laptop, no, non così, il laptop a parte signori, la macchina fotografica, il cellulare ed il portafoglio.
Ora sono qui che schiaccio con fretta tutto nei cestelli e li
spingo cercando la sincronizzazione perfetta tra la loro uscita dal tunnel ed il mio essere pronto a riceverli dall’altra parte. E' un movimento perfetto, un colpo di polso e i cestelli scompaiono ed io infilo la porta convinto che sia la solita formalita' e senza perdere mai di vista l'uscita dei cestelli.
La porta però ha un verdetto non scontato e con un
biiiiiiip malefico accende un rosso semaforo e con esso l’attenzione degli
operatori. A quel punto uno mi controlla il passaporto, l’altro mi mette in
croce e appena allargo le braccia il primo mi infila il passaporto nella mano.
Mi vedo dall’esterno, in croce con un passaporto in mano. E’ la passione del
XXI secolo. L’operatore dei controlli mi plasma cercando il corpo del reato e
poi non trovando nulla mi fa cenno di andare. Il biiiiip era superfluo, la
macchina si era sbagliata ma ora la mia roba è accatastata nei cestelli a fine
corsa del tapis roulant. Il secondo cestello, quello con il laptop è più
pesante e sta quasi per accoppiarsi con il primo contenente il giubbotto.
Arrivo appena in tempo e come se fossi ad una vendita promozionale prendo su
tutto quello che posso stringendolo in un largo abbraccio e portandolo via alla
ricerca di un luogo sicuro dove rimettere a posto i pezzi e ripartire alla
volta della sala d’aspetto.
L’attesa è surreale.
Tutti leggono qualcosa. Io non ho nulla da leggere così mi guardo intorno senza
il rischio di incrociare lo sguardo di nessuno. Un impulso elettrico graffia il
rame dei contatti e ci mette in comunicazione con una voce anonima che ci
annuncia l’apertura del Gate. Non ha finito di parlare che sono gia’ pronto, in
prima fila, soddisfatto del mio scatto. Anni ed anni di viaggi Ryanair mi hanno
instillato quella sana cattiveria da viaggiatore che rinuncia all’imbarco
prioritario e si prepara ad una vera e propria guerra di nervi. Con i voli Ryanair
non c’è attesa, c’è preparazione, allenamento. Le regole non scritte
sono semplici ma per applicarle a dovere bisogna essere preparati. Conosci il
Gate! Che fai, ti siedi? No, ci gingilli di fronte come se il tuo volo fosse un
altro. Poi arriva lei, l’operatrice, che sedendosi alla postazione del gate ti
avvisa che la guerra ha inizio. Tu la guardi fisso, perché c’è un momento in
cui un suo gesto ti dira’ che è ora di scattare. Ma prima di questo momento lei
sbriga tutta una serie di incombenze: chiama la madre per chiederle di andare a
prendere Giovanni, suo figlio, a scuola in quanto lei proprio non può farcela a
tornare da Londra in tempo. Poi invia a suo marito la lista della spesa, chiama
l’estetista per confermare l’appuntamento della settimana seguente e poi ad un
certo punto arriva una chiamata al telefono del gate. Lei smette di fare quello
che stava facendo, si libera l’orecchio destro dai capelli con un colpo secco
del capo, un colpo che brilla per eleganza di esecuzione e per un carato appeso
al lobo. I capelli come dervischi
ruotano e atterrano sulla schiena, morbidi. A questo punto il labiale è
fondamentale. Quando lei ricevera’ l’OK sara’ gia’per meta’ alzata dalla sedia.
Questo è il momento. Molti neofiti fanno lo sbaglio a questo punto di imboccare
la fila delle partenze prioritarie. Niente di più sbagliato. Da lì non si torna
indietro se non a capo chino. Certi sbagli si pagano e non puoi certo pensare
di tornare indietro e di infilarti nella fila giusta in virtù di un fantomatico
diritto acquisito siglato con frasi del tipo “c’ero prima io” “è da un’ora che
aspetto” “ho sbagliato fila, ma non ha visto che ero qui prima di lei?”. Niente
di tutto questo ha valore alcuno. Tu hai dato dei deficienti agli altri che
aspettavano in una fila chilometrica e ti sei infilata lì, dove guarda caso
c’erano due persone. Lo hai fatto con quel ghigno nascosto di chi ha trovato la
soluzione e non vuole che gli altri la vedano. Bene ora quel ghigno ha cambiato
sponda e distorce il labbro di circa 60-70 persone che come al cinema sono lì a
guardarti fisso mentre torni indietro respinta dalla Hostes. A questo punto per
te non c’è posto nella fila giusta. Non appena il tuo sguardo si posera’ in una
crepa, un anfratto nel quale intromettersi, le file si serreranno e i trolley
comporranno una testuggine perfetta.
Prendendo in
considerazione questi ed altri piccoli accorgimenti, potrete guardare il
panorama dal finestrino, chiedervi perché i finestrini sono così bassi rispetto
alla testa di un passeggero seduto, domandarvi infine cos’è quel dolore
pungente che avvertite al collo dopo aver passato 1 ora a guadare le nuvole con
la testa piegata. Poi l’ultima sensazione è quasi sempre la stessa: stanchezza.
Stanchezza perché per il tempo del viaggio qualcuno ha cercato in tutti i modi di
vendervi qualcosa.
I voli Ryanair sono un mercato ad alta quota.
Dopo anni e anni
di scuola, rincorse, vittorie tutto questo addestramento non mi serve a nulla.
Tutti gli altri passeggeri sono composti, non c’è nessuno che abbia voglia di
lottare. Certo, è vero….i posti sono assegnati quindi gran parte del divertimento così si perde, ma
volete mettere la soddisfazione di entrare quando l’aereo è quasi vuoto e non
bisogna schivare i trolley che si librano sulle teste e che lontani dalla leggerezza delle ruote di
ultima generazione, svelano la pesantezza del maglione pesante, quello di lana
fitta fitta, perché Vancouver, come direbbe mia madre, è fredda.
Vinco a tavolino, mi siedo nel mio posto e mi preparo alla traversata.
Ubicazione:
Vancouver, Columbia Britannica, Canada
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